Capricci (VIII). Adesione e rifiuto
Ultima tappa della serie Capricci. Stavolta a finire sotto la lente è la retorica dell’adesione a tutti i costi che permea la società e la cultura contemporanee. Adesione a valori conformisti e forzatamente condivisi, cui opporre una rivolta fatta di umiltà e ironia.
Agosto 2017. Questo Paese ti riserva sempre delle sorprese. L’altra sera ho visto, nell’ordine (e nell’arco di venti minuti): una mostra di memorabilia degli Anni Sessanta nel corso (locandine, giradischi, motociclette, alimenti, detersivi) allestita così male da risultare strabiliante, con grate di ferro montate su basi di cemento (una sorta di nostalgia ‘brutalista’ e iper-vernacolare) e con gli altoparlanti che diffondevano i grandi successi italiani come echi spettrali nella strada; poi una serie di vecchi lerci, pieni di birra Raffo, che si chiamavano l’un l’altro nel buio della piazza, urlando, insultandosi scherzosamente; infine, una preghiera con videoproiezione sul muro laterale della Chiesa Madre, all’aperto, una preghiera collettiva affollatissima che sapeva tanto di Medioevo con tanto di supporti tecnologici. Questo ho visto, in una sera di inizio agosto.
E poi: le custodie di plastica dei cd nella mia auto piegate dal calore eccessivo (i quarantadue-quarantatré gradi di questi giorni), con curve fantastiche e atroci – il poliziotto in divisa, nel bel mezzo della strada, che alza la paletta per fermare le auto (CONTROLLO) – passo oltre, con il brivido tipico di ogni volta che un italiano ha a che fare direttamente con l’AUTORITÀ.
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Settembre 2017. Svelto, scorrevole – letteratura della minorità – guardando fuori dalla finestra, ripenso a come dovevano essere le estati di quindici, venti anni fa – la nostalgia, culturale e personale, è cresciuta a dismisura fino a diventare qualcos’altro, probabilmente – vasi comprati chissà dove, botteghe artigianali riconvertite, la retorica dell’innovazione & io che rimango qui a scrivere di distruzioni impercettibili.
È una fortuna non avere scelta?
È una fortuna non avere scelta.
Uno stato quasi di ipnosi, semiobnubilamento, distratto – come scrivere sovrappensiero – opere che si nascondono così bene nello spazio, nella vita quotidiana, tra i gesti e gli oggetti comuni, da imporre automaticamente allo spettatore un altro tipo di fruizione, un altro tipo di percezione, un altro tipo di sguardo – da chiedere allo spettatore di non essere più spettatore, e di non partecipare in maniera solo retorica e decorativa (imprevedibile) – opere (zen) che praticano l’imprevisto, che si strutturano nell’imprevisto, che funzionano a scatti, a spizzichi e bocconi – opere “minori”, per così dire, umili: che si sottraggono – opere da indovinare, opere sottili, e che non ti vengono incontro – opere che sostituiscono facilmente la pratica alla teoria, e che anzi indentificano totalmente la teoria nella pratica.
È una questione di linguaggi: questo è diverso; non combacia, non coincide. È ovvio che il rischio, molto alto, è la totale incomprensione: ma non si tratta forse sempre di questo? Se una visione è di rottura, questa “rottura” deve essere reale, concreta, e non di facciata. Spingi sempre di più; concentrati sempre di più; non guardare ciò che fanno gli altri.
La malattia di quest’epoca è l’ADESIONE a valori condivisi internamente (peraltro disgustosi): l’unica strada per costruire qualcosa di utile, qualcosa che rimanga, è il rifiuto categorico di questa adesione (del darsi di gomito, dello strizzare d’occhi…), la rivolta esplicita contro questi valori conformisti. E pazienza se non verrà compresa, se verrà ignorata o ridicolizzata: non è sempre stato così, forse?
Non si è sempre trattato di questo, in fondo?
(Il rifiuto dell’adesione porta l’inoltrarsi in zone e in territori dove la gente non vuole veramente andare, in cui non desidera essere e penetrare.)
Proprio l’impossibilità, attuale, di trovare il proprio posto nel mondo potrebbe essere, oltre che distruttivo, foriero di novità: visioni scalzate – orbite saltate – insoddisfazioni e frustrazioni, limiti scavalcati – ordini annullati.
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Il classismo della cultura italiana: solo le visioni e le interpretazioni delle classi dominanti sono ammesse e promosse; l’ordine viene perpetuato nel recinto chiuso, tranne rapidi e superficiali aggiornamenti della sensibilità e del look, non entrano e non entreranno visioni percepite come pericolose o destabilizzanti (al massimo, si fa in modo che esse non vengano neanche prese in considerazione). Così, anche i membri delle classi inferiori (: i poveri) sono accettati e ammessi solo se si adeguano al sistema di valori concesso. In questo momento storico, l’approccio medio in voga consiste in: cinismo ostentato, strizzatine d’occhio & battutine, nostalgia sofisticata, finta modestia.
Per converso, è chiaro che l’unico atteggiamento che porta con sé una concreta trasformazione dei presupposti prima ancora che dei risultati, prevede: umiltà; rifiuto della facile ironia; onesta predisposizione “vernacolare”; una buona dose di ingenuità; autobiografismo sincero; oscura volontà di elaborare una secca visione del mondo; critica sociale scevra da sentimentalismi o, peggio, da “benaltrismi”.
Una solidità paradossale proprio perché poggia sul nulla, scivola costantemente, si ridefinisce attorno a una struttura mobile. I linguaggi nuovi si scoprono per il semplice motivo che quelli già in uso non possono spiegare e contenere sensazioni, nuovi turbamenti emotivi, ciò che si affaccia all’intuizione – consapevolezze e percezioni frutto di un tempo e di una condizione che prima NON ESISTEVANO. Non esistevano, non esistevano, non esistevano, non esistevano, non esistevano, non esistevano —
“…qualora un filologo si assumesse il compito di chiarirci che cosa Goya intendesse per ‘capriccio’ – vocabolo assai frequente nella sua corrispondenza, nei titoli dei suoi lavori, nei documenti che gli si riferiscono -, verremmo a scoprire che per lui tale espressione designa tutto ciò che un pittore fa in margine del proprio mestiere. Il valore che poi hanno assunto le estrosità di Goya non deve ingannarci riguardo all’intima sostanza del suo essere, e a quello che le cose – fra cui il suo stesso mestiere – rappresentavano per lui” (José Ortega y Gasset, Goya, SE 2000, p. 31).
‒ Christian Caliandro
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