Il destino dei saperi. Intervista a Jeffrey Schnapp

A margine della conferenza “La sorte dei saperi nel XXI secolo”, ospitata nei giorni scorsi a Firenze, abbiamo incontrato Jeffrey Schnapp, guru delle digital humanities e membro del comitato d’onore del Museo Marino Marini presieduto da Patrizia Asproni.

Sarebbe fin troppo facile cadere nella trappola del sentirsi inadeguati dopo aver letto la biografia di Jeffrey Schnapp. Nato a New York nel 1954, filologo romanzo di formazione, con all’attivo oltre venticinque libri e più di duecento saggi su autori quali Virgilio, Dante Alighieri, Petrarca, Niccolò Machiavelli, Schnapp opera da anni in una pluralità di ambiti. La sua è una ricerca transdisciplinare, capace di offrire, soprattutto agli osservatori dubbiosi dell’utilità e spendibilità professionale della formazione umanistica nei prossimi anni, una testimonianza fuori dal coro. Fondatore e direttore dello Standford Humanities Lab, quindi direttore del metaLAB (at) Harvard, attualmente Chief Executive Officer – Piaggio Fast Forward e collaboratore di diverse istituzioni culturali – in Italia, Patrizia Asproni lo ha scelto come membro del comitato d’onore del Museo Marino Marini – Schnapp modella la propria azione nel segno dell’incontro tra le discipline. Nel suo lavoro e nella sua visione, la letteratura e l’architettura, il design e la storia della scienza e della tecnica si rivelano più connessi e “somiglianti” rispetto alle distanze cui siamo soliti associarli. Il suo italiano perfetto, l’accessibilità della sua esposizione e lo sforzo di proiezione oltre i traguardi temporali imminenti hanno contribuito a mettere a tacere quella “preventiva inadeguatezza”, lasciando il campo aperto a un’opportunità di ascolto e confronto.

L’INTERVISTA

Nei giorni scorsi sono stati diffusi i dati relativi alla formazione universitaria nel nostro Paese: è boom di laureati nelle facoltà umanistiche, ma il mercato del lavoro non sembra in grado di recepire tali risorse. La sua esperienza professionale ci incoraggia a considerare questo tipo di studi come un punto di partenza verso traguardi ancora da concepire. Da osservatore e frequentatore dell’Italia, come valuta una certa “diffidenza” tra ambienti humanities e mondo dell’impresa?
È una domanda importante. Credo che ci sia bisogno di un doppio rinnovamento: nella formazione umanistica e nella cultura d’impresa. Sia l’uno che l’altro ambito affrontano una realtà che non corrisponde più a quella di venti o trenta anni fa, quando i modelli di formazione corrispondevano, più o meno, a delle esigenze precise degli ambienti lavorativi. La realtà è che oggi i cambiamenti a livello socio-economico si sono a tal punto velocizzati che le competenze di cui hanno bisogno i datori di lavoro non sono riducibili a una serie di abilità precise, a uno “skill set”. Sono richieste, soprattutto, capacità di trasversalità, di adattamento, di comunicazione, di multimedialità, di “alfabetismo multimediale”, chiamiamolo così. Tali abilità, secondo me, non sono riconducibili a conoscenze vocazionali o pratiche: ecco perché la formazione umanistica ha delle carte importanti da giocare. Essa stessa, tuttavia, deve anche aprirsi verso nuovi orizzonti: per difendersi, deve innovare.

Da italianista a “designer della conoscenza” con una forte propensione per la creatività e il design: il suo è un profilo cui sembrerebbe calzare a pennello l’appellativo ‘ibrido’. Quanto ha inciso, dagli Anni Novanta in poi, lo sviluppo di Internet nella definizione del suo ruolo professionale?
Sono sempre stato un umanista con tanta curiosità per altri campi. Mi sono “sporcato le mani” facendo un po’ di informatica già al liceo, negli Anni Settanta; inoltre ho sempre avuto un forte interesse anche per la produzione artistica, per la creatività in senso ampio. Naturalmente, come accade a tutti, all’interno della serie di interessi che abbiamo, ci troviamo a scegliere una direzione. Tuttavia, quanto viene “abbandonato” in un certo momento storico può sempre tornare. Davanti all’evoluzione del settore socio-culturale, avvenuto negli Anni Novanta quando il mondo della rete è nato come fenomeno sociale, come piattaforma e come nuovo spazio civico, alcuni dei miei interessi sono rinati. Verso la fine di quel decennio, ho fondato Standford Humanities Lab, con l’intenzione di sfruttare la posizione strategica di Stanford, cuore della Silicon Valley e del mondo nascente di Internet. Volevo creare una piattaforma che facesse dialogare le realtà emergenti e la realtà umanistica, in un incontro tra la facoltà di ingegneria e quella di arte o di scienze: avevo voglia di sperimentare, di innovare, di vedere dove questo dialogo avrebbe potuto portarci. Credo che la mia formazione umanistica sia stata fondamentale, però sono profondamente convinto che sia importante tanto mantenere delle radici profonde in un’area disciplinare, quanto nutrire lo spirito affinando una capacità di trasversalità.

Jeffrey Schnapp

Jeffrey Schnapp

Una prospettiva affascinante, ma non così semplice da attuare con i ritmi imposti del lavoro nella nostra società…
Bisognerebbe essere “traduttori” tra aree disciplinari che parlano linguaggi differenti. Mettere in conflitto, ritengo sia fondamentale per l’innovazione far scontrare due correnti: paradossale, ma essenziale. Non credo che si tratti di creare una nuova “cultura rinascimentale dell’uomo leonardesco”, una figura capace di essere un programmatore informatico al top e anche un archeologo classico impeccabile. Questo non può esistere! La complessità dei saperi è eccessiva. Dobbiamo invece trovare dei meccanismi che fanno scattare l’innovazione tramite lo scontro fra aree disciplinari diverse, entrando in contatto con nuove possibilità. In effetti, l’innovazione è sempre nata così. Per esempio, lo studio dell’antichità classica nel Rinascimento è stata la fonte di quasi tutte le grandi innovazioni. Lo stesso avverrà per la nostra epoca, a mio avviso.

Oltre ad aver analizzato sei punti salienti – dati, saperi, canali, pubblico, archivi, attori –, nel corso della conferenza si è soffermato sul tema della mobilità, a partire dal suo attuale incarico di CEO di Piaggio Fast Forward. Ha introdotto il concetto-motto “l’autonomia all’uomo”. In che modo dovremmo intenderlo e qual è la collocazione di un progetto come Gita nello scenario in cui la mobilità tende verso sistemi di sharing o mezzi altamente tecnologici, come Hyperloop?
Piaggio Fast Forward non è nata per risolvere un problema specifico: non abbiamo studiato il mercato, individuato una nicchia d’azione e cercato di inserirci. Siamo partiti da una visione della città, presente e futura, ovvero dai modelli di sviluppo urbanistico e architettonico che stanno emergendo e dando nuova forma alle metropoli. Ci sono due caratteristiche che hanno guidato lo sviluppo di Gita. Prima di tutto, il ruolo del pedone che è in crescita. È protagonista e continuerà a esserlo. La città, sacrificata sull’altare dell’automobile, appartiene al Novecento. Nel XXI secolo sarà il luogo in cui il pedone prevarrà su tutti gli altri “vettori” a livello urbano; di conseguenza, ci siamo chiesti quale potrà essere la classe di veicoli necessaria. Gita appartiene al “gruppo” in grado di supportare l’attività pedonale. In secondo luogo, avevamo l’ambizione di creare non un giocattolo, non una visione sperimentale, ma un veicolo. Doveva essere un prodotto che si nutriva della storia della Piaggio stessa, segnata da eventi come l’avvento della Vespa, che è stata una piattaforma mobile in grado di modificare completamente il modo in cui le persone si sono mosse nel mondo. Tante donne, ad esempio, non avevamo mai guidato fino al Dopoguerra: è stata la Vespa a condurle nel mondo della mobilità leggera e con loro tanti giovani e famiglie intere!

Dalla Vespa che tutti possono guidare all’autonomia di Gita, quindi…
Abbiamo cercato di permeare la nostra visione della realtà emergente della città pedonale anche con il modello incarnato dalla Vespa, che cercava di porsi non solo come veicolo funzionale e utile, ma che agli utenti piaceva utilizzare per andare in giro, per lavorare, nel tempo libero. Gita è un veicolo intelligente, interagisce con grande semplicità, è elegante, è funzionale, ma non solo. Fin dall’inizio abbiamo appunto cercato di codificare un modello di mobilità che combaciasse con il passato aziendale, ma guardando alle possibilità offerte dal XXI secolo: dunque questo veicolo può essere sì autonomo, ma la sua autonomia parte dall’esigenza di espandere la mobilità individuale. Non vogliamo sostituire alle persone dei robot e la nostra idea di autonomia si fonda sull’offrire un aiuto concreto per muoversi di più e meglio.

Jeffrey Schnapp, FuturPiaggio (Rizzoli 2017)

Jeffrey Schnapp, FuturPiaggio (Rizzoli 2017)

Ha curato FuturPiaggio, un libro-oggetto d’arte innovativo che ripercorre la vicenda dell’azienda che ha segnato la storia della mobilità e del design, ben oltre i confini della Toscana. Osservandolo, oltre a evocare il libro imbullonato di Fortunato Depero, induce a riflettere sul destino del libro, che nell’accezione di progetto sperimentale non sembrerebbe destinato alla scomparsa. Un ragionamento analogo si può estendere alle riviste?
Complicato rispondere. Nel settore della comunicazione cartacea sta emergendo come, in alcuni settori, il supporto cartaceo è sempre più in bilico. È molto improbabile che ci sia un’inversione di rotta di questi processi. Però il libro, un oggetto che fa leva sul potenziale della fisicità con il suo aspetto tattile e visivo, si sta difendendo molto bene: questo filone di sviluppo ha un lungo futuro. Quanto al resto, ci sono tante ipotesi e tante possibili forme di pubblicazione più veloci delle attuali. In particolare nel campo delle riviste, alcune categorie si difendono abbastanza bene; altre sono davvero esposte.

Ad esempio?
Prendiamo la rivista di architettura: una volta era il fulcro di tutta la comunicazione attorno al design e al progetto. Oggi si sta trovando in grande difficoltà, per una questione in particolare: le testate cartacee sono lente, ci mettono un mese per comunicare notizie che su un blog di design o di architettura si possono scambiare in modo istantaneo. Sono convinto che sia il concetto di temporalità che abbiamo associato alle riviste – mensile, settimanale, quotidiana – a essere in difficoltà, il che non esclude che altre forme possano emergere proprio da questa “crisi”, assumendo comunque una forma cartacea. Ho visto che i cataloghi delle mostre prodotte dai grandi musei non si sono trasferiti in rete, anche con tutti i supporti che ci sono nel digitale. Il catalogo è proprio l’oggetto che ti accompagna dopo la visita, che rimane di quella esperienza e, magari, un giorno sarà ancora più accompagnato o ampliato da contenuti digitali, con incroci e sovrapposizioni. Per cui, secondo me, siamo in un periodo di grande incertezza, ma diretti verso un futuro dove sono convinto che la stampa farà parte dell’“ecologia mediatica”. Non scomparirà, assumerà delle forme diverse rispetto al Novecento.

Valentina Silvestrini

http://museomarinomarini.it/
http://jeffreyschnapp.com/

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Valentina Silvestrini

Valentina Silvestrini

Dal 2016 coordina la sezione architettura di Artribune, piattaforma per la quale scrive da giugno 2012, occupandosi anche della scena culturale fiorentina. È cocuratrice della newsletter "Render". Ha studiato architettura all’Università La Sapienza di Roma, città in cui ha conseguito…

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