Fotografia e verità. A Foligno torna l’Umbria World Fest
Dal 13 al 15 ottobre, a Foligno è stata presentata la XVI edizione dell’Umbria World Fest, rassegna culturale che pone al centro la fotografia e apre il dibattito sulle profonde modifiche vissute da questa forma espressiva. Sette le mostre selezionate per il 2017 (visitabili gratuitamente fino al 12 novembre), una pluralità di linguaggi e di approcci estetici che esplorano un’ampia panoramica della scena fotografica mondiale, interrogandosi sulla capacità della fotografia di raccontare la “vera” realtà.
In un’epoca di iperesposizione all’informazione e all’immagine, dove il dinamismo della rete “bombarda” l’individuo di notizie, e grazie alla quale è apparentemente semplice essere informati con esattezza e obiettività su quanto accade intorno a noi, è paradossalmente aumentato il rischio delle fake news (sdoganate da Trump); è infatti relativamente semplice inventare una notizia e diffonderla sui social network, dove sarà a lungo letta e commentata prima che se ne riesca a scoprire l’eventuale infondatezza.
Curando questa edizione dell’Umbria World Fest, Marco Pinna si chiede sin dal titolo ‒ Post-Verità. La fotografia nell’era dell’incertezza ‒ se la fotografia possa ancora essere strumento obiettivo per raccontare quella realtà che al giornalismo scritto spesso sfugge, così come sembra sfuggire al circo dell’immagine dei social network. In senso generale, anche la fotografia ha i suoi limiti oggettivi, perché racchiude comunque un frammento di realtà, per di più mediato dalla sensibilità del fotografo, che punta l’obiettivo a sua discrezione, includendo alcuni particolari ed escludendone altri. È lui a decidere cosa vediamo e perché lo vediamo, ma, al pari dell’elettrone di Heisenberg, anche ogni singola fotografia ha comunque un ampio margine di indeterminatezza, essendo soltanto l’infinitesima parte di un tutto, un istante su una linea temporale in continuo movimento.
Il fil rouge curatoriale di quest’anno si sviluppa su come e quanto i fotografi “manipolano” la realtà, e come, paradossalmente, riescono a raccontarla pur attraverso un lavoro di alterazione.
L’APPROCCIO DOCUMENTARIO
Max Pinkers propone con Lotus la sua versione aggiornata del fotogiornalismo, realizzando un reportage nell’ambiente dei transessuali tailandesi, toccando un argomento che nel Paese è sempre stato considerato un tabù. La scelta non è casuale, ma non per motivi provocatori, quanto perché il corpo di un transessuale non è esattamente come appare a una prima occhiata, e gioca quindi sull’ambiguità dell’apparenza. Su questa china s’inserisce l’impostazione di Pinkers, che mette letteralmente in posa i suoi soggetti, quasi dovesse ricostruire un set cinematografico; con onestà intellettuale, dichiara che l’immagine è costruita, e lo fa con un sottile intento destabilizzante, volendo mettere in guardia l’osservatore contro la possibile falsità delle immagini in cui s’imbatte ogni giorno. Il risultato è una serie di scatti colorati, ammantati di ambigua bellezza, fra realtà, teatro e poesia.
Toni decisamente più drammatici caratterizzano il fotoreportage They are slaughtering us like animals di Daniel Berehulak, sulla controversa guerra che il governo delle Filippine sta conducendo contro il narcotraffico e la tossicodipendenza, attraverso “squadroni della morte” più o meno ufficiali che sembrano infierire soltanto sulle fasce più disagiate della popolazione. Le vittime che Berehulak fotografa stese sull’asfalto delle vie cittadine sono infatti giovani che la povertà ha fatto cadere nel baratro della droga o ha indotto a entrare nel giro dello spaccio con il miraggio di un reddito migliore. Violenza di Stato scagliata contro i “colpevoli” sbagliati, vite sprecate in quartieri difficili: una verità brutale, non edulcorata che colpisce come un pugno allo stomaco.
Un esempio incontrovertibile di realtà lo fornisce la raccolta di rilevazioni satellitari della NASA, che ha documentato l’arretramento dei ghiacciai dei vari continenti, negli ultimi anni. Qui la scienza si sostituisce all’estetica, non c’è alcun tipo di ricerca che non sia quella dei dati incontrovertibili della realtà. Un approccio quindi scientifico, che non risente delle inevitabili interpretazioni personali della fotografia “classica”.
IL LATO ONIRICO DELLA REALTÀ
Affascinante e insieme inquietante, Guardians of memory, la serie fotografica del messicano Diego Moreno che esplora la sfera del misticismo subcosciente, impossibile da fotografare in maniera diretta. Pertanto l’invenzione è necessaria per costruire la metafora, ma in questo caso si tratta di una manipolazione necessaria a dare forma a una verità, fatta di credenze ancestrali e superstizioni. Le maschere dietro cui si celano uomini, donne e bambini, sono quelle dei Panzudos, ovvero i peccati che ogni individuo deve espiare e che “infestano” la sua anima; maschere al limite del repellente, suggerite dalla malattia deformante che colpì una prozia di Moreno, ma che, così ricostruite, uniscono la memoria familiare alle credenze popolari, frutto di una memoria collettiva. Questi scatti dall’aura barocca, dai colori pesanti come antichi broccati, toccano un simbolismo inquietante e commovente, specchio di una cultura che, in alcune sue manifestazioni, trascende la realtà. E il fotografo non può che adeguarvisi.
Pur documentando un fatto reale, come i disastri ecologici causati dai rifiuti industriali, Henry Fair realizza fotografie artistiche, le quali, a prima vista, ingannano sulla natura dei soggetti; l’oggettiva bellezza degli effetti cromatici (grazie all’utilizzo della fotografia aerea) avvicina le immagini di Industrial Scars alle pitture d’arte astratta. Non c’è intervento alcuno di manipolazione, si tratta, si potrebbe dire, di un caso in cui la realtà manipola se stessa creando un’illusione ottica, un’illusione che il fotografo accetta e che pertanto trasforma in dato oggettivo fermandola con l’obiettivo.
LA REALTÀ RICOSTRUITA
Apre un’interessante prospettiva storico-sociale la riscoperta dell’archivio dell’Espresso che, con La verità tagliata, racconta come si “ricostruiva” la realtà ai tempi in cui non esisteva Photoshop. Forbici, colla, scotch erano gli strumenti per modificare le immagini allo scopo di renderle più appetibili, più incisive, più gradevoli al pubblico; non una manipolazione della verità, ma un adattamento funzionale alle esigenze della comunicazione. Attraverso cui si fa, più o meno direttamente, anche della politica.
La talentuosa, ma ancora poco nota, Cristina de Middel, nel suo Jan Mayen rende indistinguibile il confine tra finzione e realtà, arrivando direttamente al cuore della questione posta dal titolo del World Fest di quest’anno. Ispirandosi alla vera storia della spedizione scientifica che millantò di aver esplorato un’isola artica senza in realtà esserci mai arrivata, de Middel affianca alle immagini (false) prodotte dai protagonisti nel 1911 quelle altrettanto posticce da lei realizzate oltre un secolo dopo. Attraverso una sapiente tecnica (gelosamente custodita) è riuscita a varcare il confine vero/falso e con questa sottile provocazione mette in guardia l’opinione pubblica dalle manipolazioni della realtà cui purtroppo il giornalismo non è immune.
LA PORTATA DELLA FOTOGRAFIA CONTEMPORANEA
Allestimenti sobri, didascalie snelle ed esaurienti, un numero non eccessivo di fotografie per ogni mostra: elementi che determinano chiarezza espositiva e giovano alla comprensione degli importanti interrogativi che Marco Pinna si è posto curando questa edizione del festival. Si riflette su una pluralità di tematiche, politiche, sociali, ambientali, ma soprattutto su come queste tematiche arrivano all’opinione pubblica. L’oggettività assoluta è sempre indispensabile per raccontare la realtà? È comunque possibile essere completamente oggettivi, fotografando? E qual è il confine tra fotografia ed “espressione artistica con il mezzo fotografico”? Tematiche importanti, di cui in Italia si parla ancora poco, ma che devono essere affrontate per far nascere una matura scena fotografica, che si apra anche al mondo dell’arte. Probabilmente, però, la fotografia come siamo abituati a pensarla sta attraversando una fase di profondo rinnovamento, legata a ragioni tecnologiche ma anche al modo in cui oggi si concepisce l’immagine; una fase in fieri, della quale non sono ancora noti gli sviluppi successivi. Per cui, probabilmente, continuiamo a chiamare fotografia qualcosa che potrebbe rivelarsi un mezzo di espressione completamente diverso.
‒ Niccolò Lucarelli
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