Architetti d’Italia. Gianluca Peluffo, l’eretico
Appuntamento numero venti con la serie dedicata da Luigi Prestinenza Puglisi agli architetti italiani. Stavolta i riflettori illuminano Gianluca Peluffo, ex membro di 5+1 AA e sostenitore di un’architettura che privilegia il linguaggio, la poesia, rispetto alle logiche della performance a tutti i costi.
Siamo arrivati alla puntata numero 20 della grande serie “Architetti d’Italia”. È per me la più difficile perché tratta di Gianluca Peluffo. Dovevo dedicargli la numero 10, ma poi ho cominciato a perdere tempo, ad anteporre prove più facili. Scrivere di Peluffo è, infatti, un’impresa per almeno tre ragioni, che è bene esplicitare subito a scanso di possibili equivoci.
La prima è che con Gianluca condividiamo un paio di virtù e una decina di debolezze e, senza il dovuto distacco critico da pregi e difetti, non è facile scrivere un profilo convincente. Il secondo motivo è che costruire un pezzo su Gianluca Peluffo separando la sua attività da oltre vent’anni di lavoro comune con Alfonso Femia è un’operazione spericolata dal punto di vista storiografico. È passato troppo poco tempo dalla brusca separazione dei due soci avvenuta a metà 2017. E, invece, solo con gli anni, confrontando le nuove opere realizzate autonomamente con le vecchie disegnate in partnership, riusciremo a capire quale sia stato l’apporto di ciascuno al sodalizio 5+1 AA. Un sodalizio che ha prodotto alcuni degli edifici più innovativi (mi piacerebbe dire: fantastici) negli ultimi anni di architettura italiana. Anni che altri progettisti hanno, invece, percorso, per paura di sbagliare, con il freno a mano costantemente tirato.
La terza ragione è la più temibile: non so se la linea perseguita da Gianluca Peluffo sia la soluzione per uscire dall’estetismo soft e manierato della produzione architettonica italiana; oppure un espediente per tentare di restituire al linguaggio poetico una centralità che di fatto ha perduta. Insomma, per semplificare, non saprei dire se la poesia di Peluffo canti una vittoria o celebri una sconfitta.
LIBERTÀ ED ERESIA
Ho impiegato diverso tempo a capire la strategia di un ligure che non è descrivibile se non per coppie di opposti: astratto e concreto, idealista e realista. C’è stato addirittura un momento, nel 2008 se non sbaglio, in cui 5+1 AA, aveva prodotto un libro fatto tutto di immagini, compresa una di Monica Bellucci nuda o comunque discinta. Il corposo volume aveva una copertina rosa e un titolo che parlava di Ombelico dei sogni. Ero convinto che ci volesse prendere in giro. Ecco, pensavo, il solito bullshit: lo scappare dall’architettura per parlare di altro, come fanno le ditte che producono scarpe da ginnastica e, invece di pubblicizzarle per le loro obiettive qualità, te le vendono a caro prezzo perché indossate dalle starlette di turno.
Non mi rendevo conto che ‒ sia pur con più di qualche ammiccamento alla moda ‒ era il tentativo più importante compiuto in Italia negli ultimi venti anni di aprire l’architettura a un nuovo immaginario con l’obiettivo di costruire un linguaggio che non fosse fondato su elucubrazioni disciplinari.
Se l’architettura è un linguaggio di libertà, non può che aspirare a essere collettivo, recuperando ed elaborando immagini significative capaci di generare emozioni e condivisione. Una gigantesca operazione pop che, però, invece di perdersi nella fascinazione per ciò che banalmente esiste (per capirci un’operazione alla Andy Warhol) punta a ripercorrere la nostra storia comprendendo la metafisica, nel senso di fisica storica trasfigurata.
Un’operazione simile a quella condotta dal migliore Aldo Rossi ma con la differenza che, mentre il repertorio delle immagini del primo è vincolato a un mondo meccanico e razionale visto, sia pur nelle realizzazioni più riuscite, con gli occhi di un bambino, qui l’operazione è di abbracciare un immaginario ancora più vasto, al limite infinito, che non teme le contraddizioni della contemporaneità. Un’operazione eclettica che rifiuta steccati e confini in nome della libertà e della capacità da parte della poesia e dell’arte di riappropriarsi di frammenti altrimenti perduti. E con la precisazione che Peluffo al termine, certamente ambiguo, di “eclettico”, che presuppone incapacità di selezione e di trasfigurazione, preferisce altre parole.
“Il linguaggio eretico che proponiamo” ‒ sostiene, infatti, in un post apparso sulla sua pagina ‒ “è uno Stra-linguaggio, ovvero un linguaggio capace di essere totalmente inclusivo dell’enorme quantità di immagini, informazioni e interpretazioni della realtà, che rendono il presente cieco e sordo, e quindi non creativo, risolvendo questa tempesta in una forma collettiva e condivisibile”.
L’IMPORTANZA DEL LINGUAGGIO
Sempre sulla stessa pagina, Peluffo enuncia 8 parole chiave. Sono: eresia, mito, corpo/materia, intersoggettività, genealogia, generosità, tempo, contemporaneità.
Basta appena scorrerle per accorgersi del tentativo di recuperare a tutto campo i fenomeni del mondo e di riappropriarsi, dal punto di vista di un ragionamento sperimentale se non di avanguardia, della dimensione storica che ha da sempre mortificato con il suo peso insopportabile la ricerca progettuale in Italia. La storia questa volta non come amica paralizzante, non come modello da imitare pedissequamente ma come dimensione, anche mitologica e fantastica, senza la quale l’immaginazione non può respirare. La storia quindi ‒ e la parola è tra le più frequenti negli scritti di Peluffo ‒ come genealogia, come genesi del presente.
E, difatti, nei suoi confronti oggi possiamo comportarci in due modi. Recuperandola come formulario di stereotipi e quindi come principale responsabile di ciò che Peluffo vede essere il pensiero unico, quello, per capirci, delle immagini dei mass media, oppure come pretesto per la costruzione di un progetto che oscilli tra le polarità della condivisione e della eresia.
Riproponendo la centralità del linguaggio, cioè della consapevolezza del nostro parlare, Peluffo in nome dell’etica si oppone all’estetica da sarti dell’high touch, dove l’obiettivo principale sembra essere il disegnare un vestito di ineccepibile buona fattura artigianale e proprio per questo inespressivo. Ma, soprattutto, disprezza i discorsi che privilegiano la performance, gli standard di benessere, i flussi immateriali, le reti e considerano la forma come un portato secondario.
Da qui lo scontro con Carlo Ratti in un faccia a faccia particolarmente stimolante che, nel giugno 2017, ho avuto il piacere di moderare.
A differire tra Ratti e Peluffo era tutto: colore, taglio dei vestiti e postura inclusi. A confrontarsi erano i due progetti più alternativi e più interessanti prodotti dalla recente cultura architettonica italiana.
A cosa porta la società della tecnologia e degli immateriali? Alla sparizione dell’architettura a tutto vantaggio di un corpo che rischia, come ha sintetizzato felicemente Peluffo, di perdere la propria ombra, la concreta materialità.
Viceversa, cosa produce la cultura del linguaggio? Involucri edilizi che ci ingabbiano nelle loro storie, raccontate, nei casi migliori, come ha fatto notare Ratti, da poeti che si arrogano il diritto di parlare in nome nostro.
RISCHI E PARADOSSI
Da questo dilemma non se ne esce. Per quanto il linguaggio possa avere un’anima, un carattere, essere sensuale e misterioso e, come suggerisce Peluffo, ammalarsi, trasformarsi, invecchiare e avere una storia e, appunto, una genealogia.
È stato interessante vedere in rete come nel confronto tra Ratti e Peluffo, quest’ultimo sia stato di gran lunga il preferito. Forse perché consola gli architetti assicurando loro che ancora la disciplina ha storie da raccontare e un corpo sul quale tatuarle o scolpirle, come se fossero geroglifici da tramandare. E che gli autentici progettisti sono ancora custodi di un linguaggio, in gran parte essoterico perché fornitoci dal mondo e in parte esoterico perché tramandatoci dalla disciplina, che rende il loro ruolo diverso da quello del semplice esecutore di giochi performanti, di concept o di metafore più o meno alla moda.
Come sempre accade a tutte le estetiche che vogliono essere popolari, il guaio peggiore è, però, che lo possano effettivamente diventare. Come quando Aldo Rossi è stato messo in mano ai rossiani, Kahn ai kanhiani, Wright ai wrightiani.
Il paradosso di ogni estetica del linguaggio è infatti che, più si apre nella sua dimensione popolare, più chiede, per funzionare, di essere esclusiva, di essere interpretata grazie alla magia di un prestigiatore.
E così torniamo alla terza ragione per la quale era difficile scrivere di Peluffo.
In questo dialogo, per usare le sue stesse parole, fra “individuo e Collettività”, temo che alla fine, come sempre accade con la buona poesia, a salvarsi ‒ o, se vogliamo, ad annegare felicemente, perché il salvataggio che opera la poesia ha sempre un che di allegria di naufraghi ‒ sia il prestigiatore e che la collettività sia, come sempre, un pretesto. Il migliore, certo, pretesto possibile per costruire una buona architettura. Perché in fondo, il poeta che sogna di trascinare le folle, alla fine, come un naufrago è sempre solo.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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