Dell’enorme potenziale che un social network come Instagram, basato esclusivamente sulla divulgazione delle immagini, riesce a sprigionare anche all’interno del sistema dell’arte se ne parla oramai tanto e da tempo.
Perfino le dinamiche legate al collezionismo sono profondamente cambiate: l’estrema semplicità nel consultare e valutare opere pubblicate attraverso profili personali dà infatti la possibilità a un ipotetico acquirente di contattare in autonomia l’artista in questione senza dover passare per galleristi e art dealer.
Di un simile cambiamento sono pienamente consapevoli anche gli artisti. Molti di loro, infatti, cavalcando questa grande onda del nostro tempo, sono riusciti a compiere il passo successivo spingendo il proprio account tanto in là da farlo diventare un progetto artistico in tutto e per tutto. Di recente ad esempio si è parlato molto degli autoritratti realizzati con l’ausilio della app per fotoritocchi Facetune e caricati da Cindy Sherman sulla propria pagina, spingendo a ragionare sui possibili utilizzi alternativi che si possono fare di certe applicazioni e di strumenti ben specifici.
Questo tipo di approccio ricorda molto operazioni che, durante la metà degli Anni Novanta e dunque agli albori di internet, venivano portate avanti dai net artisti, molti dei quali trasformarono dei “semplici” siti internet in vere e proprie opere d’arte con tanto di contratti che ne attestavano lo status. Così facendo, un intero spazio, seppur virtuale, viene sacrificato per contenere e diffondere una sola e unica idea. È il caso ad esempio delle pagine web dell’olandese Rafael Rozendaal.
DA OBRIST A CATTELAN
Un’artista come la Sherman non è però la prima, e neanche l’ultima, a utilizzare Instagram in linea con la propria ricerca; pionieristico, in un certo senso, può essere definito l’Handwriting project del critico e curatore svizzero Hans Ulrich Obrist, che dal dicembre del 2012 colleziona e condivide sul proprio profilo disegni e frasi scritte a mano su post-it ricevuti da artisti e intellettuali di tutto il mondo. Nato da una storica riflessione a proposito della perdita dell’abitudine alla scrittura manuale, raccontata anni orsono da Umberto Eco sul Guardian, il progetto si avvale della collaborazione di menti brillanti provenienti dai campi creativi più disparati: da James Franco a Caetano Veloso, passando per Olafur Eliasson e Santiago Sierra (giusto per citarne alcuni). L’interesse da parte del critico svizzero nei confronti di questo social si evince anche da Take Me (I’m Yours), l’ultima mostra da lui curata insieme a Christian Boltanski, Chiara Parisi e Roberta Tenconi che ha inaugurato lo scorso primo novembre negli spazi dell’HangarBicocca di Milano. Incentrata principalmente sullo scambio tra spettatore e artista, e dunque sui principi cardini dell’arte relazionale, l’esposizione collettiva include tra gli altri anche Franco Vaccari il quale, ricontestualizzando l’ormai celebre intervento presentato in occasione della 36esima Biennale di Venezia del ’72, ha appositamente messo a disposizione dei visitatori l’account Esposizione in tempo reale 46 attraverso cui chiunque può postare un selfie testimoniando così, ancora una volta, la propria presenza.
Più recente dell’esperienza di Obrist è invece l’avvicinamento a questo campo di Ryan Trecartin il quale, attraverso montaggi frenetici, accelerazioni sonore e aggiunte in sovrimpressione di testi ed emoji, tramuta le voyeuristiche stories in brevi video capaci di esprimere a pieno il modus operandi proprio delle opere che lo hanno reso celebre.
Furbetta e accattivante l’operazione di Maurizio Cattelan, che con il suo The single post Instagram quotidianamente carica una sola immagine, spesso prelevata direttamente dal web, destinata a durare esclusivamente ventiquattro ore prima di cedere il posto alla foto successiva, sovvertendo così il concetto di archivio costantemente consultabile tipico di un social come Instagram.
BARNEY E PARRENO
Superando il discorso puramente estetico, c’è anche chi ha trasformato il proprio profilo in uno spazio altro facendogli assumere delle sembianze che esulano dall’idea di mero contenitore. Sono questi i casi dell’account dello studio di Matthew Barney e di Philippe Parreno. Se il profilo del primo appare come una specie di laboratorio da alchimista, costituito principalmente da filmati che documentano misteriose fusioni in bronzo e test di bagni in vasche di acidi e metalli vari, l’altrettanto enigmatico account dell’artista francese si presenta come un luogo decisamente spoglio e minimale abitato solamente da pochi monocromi bianchi (come la fredda luce dei neon) postati massivamente in data 10 ottobre 2016, ovvero a un giorno di distanza dalla chiusura della fiera Frieze che quell’anno fu inaugurata proprio da un intervento di Parreno all’interno della Turbine Hall della Tate Modern di Londra.
SCATOLE CINESI
Rimanendo sempre sul tema dello spazio allestito (questa volta inteso in tutte le sue accezioni), ma allontanandoci da un discorso prettamente legato all’arte contemporanea, ci sembra doveroso citare Rick and Morty Rickstaverse: un particolare account ideato dai creatori dell’omonima serie animata statunitense incentrata fondamentalmente sulle vicende dei due protagonisti (per l’appunto Rick e Morty) alle prese con l’esplorazione di dimensioni parallele e portali spazio-temporali.
Dalla suddetta pagina profilo è dunque possibile visualizzare un’immagine unica suddivisa in più riquadri all’interno dei quali si possono scovare dei tag che, se cliccati, conducono verso un altro account che a sua volta ospita una nuova immagine frammentata in diversi riquadri contenenti ancora altri tag pronti a rimandare verso nuove pagine, e così via.
In questo caso il profilo Instagram diviene una sorta di scatola cinese, una tautologia che ben rappresenta i concetti di universi paralleli e viaggi temporali, temi per l’appunto cari al concept del sopraccitato cartone animato, accostandosi ancora una volta, proprio per la sua navigabilità, all’idea originale di sito internet. La fruizione di profili simili diviene dunque un’esperienza a tutti gli effetti capace di trasmutare un qualsiasi utente annoiato in un fruitore attivo pronto a sublimare la banale azione dello scrolling in qualcosa di più dinamico e partecipativo.
‒ Valerio Veneruso
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