E lo chiamano lavoro. Vivere da artista a Berlino
Appena entrati nello spazio espositivo, subito si è pervasi da un senso di appagamento visivo: si notano la prevalente presenza del bianco e del nero, le piccole dimensioni delle opere e l’utilizzo di molte tecniche elusive volte a disconoscere il materiale ordinario, reinventandolo e adeguandolo ai nuovi spunti che la società offre. Questa è l’estetica […]
Appena entrati nello spazio espositivo, subito si è pervasi da un senso di appagamento visivo: si notano la prevalente presenza del bianco e del nero, le piccole dimensioni delle opere e l’utilizzo di molte tecniche elusive volte a disconoscere il materiale ordinario, reinventandolo e adeguandolo ai nuovi spunti che la società offre. Questa è l’estetica che accomuna i lavori che, attraversando più generazioni di artisti – da Heiner Franzen e Manfred Peckl a Birte Bosse e Jeewie Lee – con ironia e risolutezza dispiega il ventaglio di possibilità interpretative della Berlino di oggi.
Di oggi, ma anche del futuro. Come lo stesso titolo richiama – è infatti tratto dall’omonimo libro di Holm Friebe e Sascha Lobo –, le opere dei 57 artisti in mostra evocano la sovrapposizione critica tra lavoro, vita e “produzione” artistica e il rapporto tra organico e tecnologico, tra individuo e città, tra tecnica e rappresentazione.
La mostra offre all’osservatore una vera e propria mappa orientativa della scena artistica di Berlino; un repertorio che, per gli appassionati come per i neofiti, aggiorna enciclopedicamente – ma con molta meno schematicità – le aspettative dell’arte odierna.
‒ Federica Maria Giallombardo
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