Teatro. Intervista a Dorothée Munyaneza
Vi ricordate Hotel Rwanda, il film che nel 2004 diede voce al terribile genocidio che i Tutsi subirono nel 1994? Era il timbro caldo di Dorothée Munyaneza ad accompagnare il film. Cantante, coreografa, danzatrice, attrice, originaria del Rwanda ma di nazionalità britannica e residente a Marsiglia, nel suo primo spettacolo, Samedi Détente, Dorothée tratta del […]
Vi ricordate Hotel Rwanda, il film che nel 2004 diede voce al terribile genocidio che i Tutsi subirono nel 1994? Era il timbro caldo di Dorothée Munyaneza ad accompagnare il film. Cantante, coreografa, danzatrice, attrice, originaria del Rwanda ma di nazionalità britannica e residente a Marsiglia, nel suo primo spettacolo, Samedi Détente, Dorothée tratta del genocidio a partire dalla propria storia autobiografica. Con Unwanted l’artista vuole concentrarsi sul tema delle violenze subite dalle donne in tempo di guerra, con il desiderio “che le voci delle donne del mio e di altri Paesi siano ascoltate, voci di donne i cui corpi sono o sono stati campo di battaglia della sete di potere e della violenza sessuale degli uomini.” Ha incontrato alcune di loro, le ha ascoltate, osservate ‒ “condividerò con loro il mio tempo così che, io stessa, nella mia maniera, possa raccontare le loro storie” ‒ per non dimenticare.
La violenza sulle donne sembra un tema quanto mai attuale di questi tempi, anche nel nostro fortunato mondo occidentale. In questo caso, di certo più grave, la violenza si accompagna spesso a nascite non riconosciute dai padri e figli non voluti.
Lo spettacolo, in scena al Romaeuropa Festival l’11 e il 12 novembre al Teatro India, sarà accompagnato da un incontro curato da Internazionale con l’artista e il collettivo francese Zero Impunity, un progetto multimediale di indagine e attivismo per combattere l’impunità delle violenze sessuali verso le donne, commesse durante i conflitti armati.
Lo spettacolo è stato e sarà anche ospite del Festival d’Automne di Parigi. Il 24 novembre al Théâtre du Fil de l’eau.
L’INTERVISTA
Unwanted è il titolo forte di questo tuo secondo spettacolo. Cosa evoca?
Unwanted è ciò che è tenuto in silenzio, la violenza sessuale perpetuata contro le donne in tutto il mondo e che viene taciuta, ma sono anche le conseguenze di tali crimini sessuali, come le malattie che queste donne contraggono, i bambini che accettano di mettere al mondo, figli indesiderati, e il conseguente rifiuto con cui sono costrette a vivere giornalmente. Durante la guerra, la violenza è utilizzata come arma di distruzione di massa, eppure rimane un crimine di cui si parla appena.
In questo spettacolo ti fai portatrice delle esperienze di violenza subite dalle donne del Rwanda. Nel tuo precedente spettacolo avevi già indagato il genocidio del Rwanda a partire dalla tua stessa biografia. Come porti queste voci in scena?
In Samedi Détente, ho condiviso la mia personale testimonianza su ciò che abbiamo vissuto nel 1994 durante il genocidio dei Tutsi. Portando in scena le mie parole e la mia autobiografia, mi sono chiesta quali altre parole o testimonianze avrei potuto riportare. Dopo aver visto un documentario intitolato L’homme qui répare les femmes (L’uomo che ripara le donne N.d.R.), sul Dr Denis Mukwege, di Thierry Michel e Rwanda, la vie après, paroles des mères (Rwanda, la vita dopo, parole di madri N.d.R.) di Benoît Dervaux e André Versaille e anche Mauvais Souvenir (Brutti Ricordi N.d.R.) di Marine Courtade e Christophe Busché, mi sono convinta ancor di più che quello di Unwanted fosse un argomento che volevo affrontare in questo artista.
La questione del corpo femminile come campo di battaglia per gli uomini che, quando invadono dei territori “invadono” sessualmente e con violenza il corpo delle donne, per annientare loro e la loro società, mi preoccupa non solo come essere umano, ma anche come donna e come artista. Naturalmente, pensando a queste madri, ci rendiamo conto che la nostra storia umana è piena di esempi simili, sia attualmente nella Repubblica Democratica del Congo, in Siria, in Ciad, sia in Rwanda durante il genocidio dei Tutsi o nell’ex Jugoslavia. Bambini discendenti dei violentatori e delle vittime. E anche questa è ancora una realtà taciuta, un tabù.
Come hai selezionato e raggiunto le voci che ti sono servite da testimonianza?
Poiché molti sono stati gli esempi di violenza sessuale subita dalle donne in tutto il mondo, ho deciso che per prima cosa avrei incontrato le donne sopravvissute al genocidio contro i Tutsi in Rwanda e con l’aiuto di Godeliève Mukasarasi e, della sua fondazione SEVOTA che lavora con queste donne e i loro figli, sono riuscita ad andare nelle aree rurali del Rwanda per trascorrere del tempo con le donne e i loro figli, che ora sono giovani adulti di età compresa tra i 22 e i 23 anni. Ho ascoltato le madri in un ambiente intimo e registrato le loro testimonianze che ho poi tradotto in francese e in inglese. A volte diffondo queste testimonianze in scena in Kinyarwanda e le traduco quasi simultaneamente o le canto. Parti di queste testimonianze sono le linee guida e il nucleo dello spettacolo.
Sei una cantante ma hai scelto la scena teatrale e un vero e proprio mix di linguaggi (dalla danza al testo, passando per elementi più performativi) per parlare del reale. Perché questa scelta? In che modo la scena teatrale può raccontare la realtà con tutti i suoi conflitti, le sue problematiche, le sue contraddizioni?
Sono sì una cantante, ma credo fermamente che la danza, il testo, la canzone e la performance in generale siano gli strumenti che mi permettono di portare a compimento il compito che mi sono prefissata, ovvero trasformare e trasmettere queste voci, portarle attraverso il corpo al pubblico. Amo spesso citare Nina Simone, che una volta disse: “Come posso essere un artista e non riflettere i tempi?” Per me questa questione è di grande importanza, perché come artista non posso essere indifferente a ciò che succede nel mondo, sia in quello vicino che in quello lontano. Dobbiamo ricordare che i nostri corpi portano con sé delle storie, che sono legate ad altre storie all’interno del passato storico e del presente della nostra umanità. Hlengiwe Madlala Lushaba, un buon amico e un artista meraviglioso, una volta mi disse: “Il nostro compito di artisti è quello di riparare quello che è stato rotto“. E se lo facciamo attraverso la danza, le parole, la musica, la poesia, la pittura, la canzone, non possiamo rimanere ai margini del nostro mondo.
Anche la musica ha un peso molto particolare all’interno dello spettacolo: la voce femminile di Holland Andrews, ma anche la Sinfonia #3 di Henryk Gorecki e poi, ancora, la materia sonora di Alain Mahé.
Ho scelto di usare molta musica, e di usarla come mezzo per approfondire questo trauma, per approfondire anche le testimonianze di queste donne e di questi bambini, per dar voce e cantare la loro umanità, il loro tormento e anche la loro dignità. Mentre stavo scrivendo di Unwanted, ho ascoltato spesso la Sinfonia # 3 di Henryk Gorecki, un’opera d’arte incredibilmente commovente e magnifica. Sapevo che volevo dare una qualità lirica alla musica che avrebbe accompagnato il racconto delle violenze. Quando ho conosciuto Holland Andrews, e scoperto le sue molteplici doti canore, la tecnica con cui riesce a creare molteplici strati vocali per riprodurre, da sola, un coro femminile, ho capito che volevo lavorare con lei.
In che modo la musica, il suono, il canto, attraversano questo spettacolo?
Le molte donne che ho incontrato e le tante altre cose che ho letto, rappresentano per me un certo tipo di coro. Tutte queste voci mi tornano alla memoria con diverse qualità, ma tutte parlano della stessa violenza e della determinazione a mantenersi in piedi anche dopo aver subito il crimine più violento che esista, che è la violenza sessuale. E per me Holland Andrews ha questa capacità di invocare, o meglio, di dare vita a queste voci diverse, attraverso la sua sola voce. Poi ovviamente la collaborazione con il musicista Alain Mahé ha arricchito ulteriormente lo spettacolo, la sua musica crea un paesaggio che si somma a quello delle voci, trasforma ogni minimo particolare in violenti torrenti e ha la capacità di costruire con Andrews e con me il ciclone, accompagnandoci nello stesso tempo. Il suono, la musica, il canto, sono lì per precedere e prolungare il gesto e per consentire allo spettatore di ascoltare e respirare ciò che viene detto.
Viviamo insieme, nel buio così come nella luce.
‒ Chiara Pirri
L’intervista fa parte dei programmi di sala di Romaeuropa Festival.
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