Un atto illegale si fa arte? La poetica della street art dentro un museo italiano
L’incursione non autorizzata di un writer all'interno della collezione di un noto museo italiano diventa un’azione artistica per denunciare il confine tra legalità e illegalità dell’atto intellettuale.
Si è svolta recentemente in un noto (ma innominabile) museo italiano – e in modo non autorizzato – un’azione artistica di Alessandro Ferri, in arte Dado (Bologna, 1975), che l’ha intitolata Chiedi alla polvere. Cosa è successo? L’artista, nato nell’ambito del graffitismo italiano degli anni ’90, ha furtivamente installato una sua scultura nel caveau dell’istituzione a fianco di opere di importanti artisti del Novecento italiano, tra cui Fontana, Licini e Melotti, allestite in modo del tutto casuale, come se fossero destinate all’oblio. Poi ne ha documentato la presenza, facendone delle composizioni fotografiche che ha mostrato a una ristretta cerchia di critici d’arte.
LE RAGIONI DELL’ARTISTA
“Mi sono costruito da solo la mia mostra personale accanto ai miei miti adolescenziali”, ha raccontato ad Artribune Dado. “Il processo creativo è avvenuto in maniera esperenziale, ne ho avuto l’occasione ed è successo perché è anche una modalità mia di lavorare”. Quella della strada, dove il lavoro sui muri nasce spesso dal confronto con gli altri writer, e lo spazio tra un graffito e l’altro è molto ristretto e ravvicinato, favorendone il dialogo.
UNA PERFORMANCE URBANA PER FARE DIBATTITO
Perché l’hai fatto? “L’obiettivo era quello di fare una provocazione: portare la poetica della street art dentro un museo per produrre una discussione”, risponde Dado che, con questa operazione artistica simbolica, ha voluto – da writer – relazionarsi con il linguaggio di alcune opere storiche della tradizione artistica italiana per puntare l’attenzione sul limite ambiguo tra legalità e illegalità dell’atto intellettuale, e tra arte “ufficiale” e “arte pubblica”. Già nel 2008 a Roma, per la mostra Scala Mercalli curata da Gianluca Marziani, Dado scelse di intervenire su una vetrata dello spazio espositivo per rimarcare il confine tra interno ed esterno, tra pubblico e privato, tra l’arte e la sua criminalizzazione. “L’istintività dell’accaduto è tipica di chi si muove in un contesto urbano, anche se in questo caso ci troviamo all’interno di uno spazio istituzionale”, interviene Fulvio Chimento, il curatore che ha scritto a posteriori il testo critico dell’evento. “Ecco perché l’operazione è esemplare, non parliamo di una mostra vera e propria tesa a valorizzare il lavoro di Dado, ma di un gesto di rivolta finalizzato a creare attenzione. Parliamo di un gesto artistico spersonalizzante, nessuna promozione, solo attenzione verso il patrimonio culturale italiano, quindi non possiamo chiamarla mostra, ma incursione, ‘gesto artistico’”.
– Claudia Giraud
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