Danza. Il corpo e l’identità secondo Sidi Larbi Cherkaoui e Akram Khan
Un approfondimento – anzi: un piccolo saggio – su due coreografi che hanno indagato le tante sfumature dell’identità, calandole nella dimensione del movimento.
Passaporto smarrito o improvvisamente scaduto ed è un attimo a sentirsi vulnerabili. Sarà capitato a tutti almeno una volta di avere avuto problemi con un documento d’identità e di ritrovarsi a fare riflessioni importanti su chi siamo e sul perché quel piccolo libretto, custodito in un cassetto o trasportato con noncuranza in borsa, ci rappresenti in un modo così viscerale. In effetti, al suo interno sono delineate le nostre semplici caratteristiche estetiche, formali, giuridiche, ma il passaporto determina in fondo qualcosa di più profondo del nostro stare al mondo, vale a dire l’immagine stessa della nostra identità e la nostra mobilità nel mondo.
IL CONCETTO D’IDENTITÀ POLIFONICA
Ci sono artisti che, attenti per natura alle sfumature, hanno sviluppato un atteggiamento analitico nei confronti del concetto d’identità eleggendolo tema principale della propria ricerca. Ci riferiamo in particolare a due coreografi per i quali lo scambio con l’altro, gli incontri straordinari, la riflessione sulle diversità culturali e le possibili tracce comuni hanno rappresentato – e ancora energicamente rappresentano – la radice profonda di un pensiero, di un lavoro: un fondamento senza il quale non sarebbero oggi diventati quello che sono. Convinti che il movimento sia una delle caratteristiche più importanti dell’essere umano e che il genere, così come la danza, non costituisca un’entità fisica fissa ma una forza fluida e dinamica di energie conflittuali o complementari, Sidi Larbi Cherkaoui e Akram Khan sono veri e propri ambasciatori della libertà di movimento attraverso le frontiere perché, come ha notato già diversi anni fa Elisa Vaccarino (E. G. Vaccarino, Danze plurali/L’altrove qui, Macerata, Ephemeria Editrice, 2009), non sintetizzano più soltanto nel loro operato una “fusione multietnica”, bensì incarnano in loro stessi una vera e propria identità “plurima”. Non mettono più in scena suggestioni esotiche, una fascinazione colonialistica per la diversità culturale che ha nutrito due secoli fa il grande repertorio del balletto classico, ma una vera e propria fusione di discipline fisiche e d’identità artistiche polifoniche. Ricorderemo la scena di un potente e indimenticabile spettacolo che vedeva protagonisti proprio i due autori, zero degrees (2005), nella quale veniva a galla un momento di vita realmente accaduto in cui Akram Khan aveva per l’appunto perso il passaporto nel momento di attraversamento del confine; immediato il senso di fragilità e spaesamento che ha generato una riflessione sul senso del proprio stare al mondo e sugli effetti che una più o meno arbitraria semplificazione di alcuni dati personali in una griglia prefissata può determinare ai fini della reale comprensione di chi siamo, da dove veniamo e dove vorremmo andare.
UN INCONTRO FORTUNATO
Nato ad Anversa, in Belgio, da madre fiamminga e da padre marocchino, con una passione giovanile per la danza di strada e da discoteca, Sidi Larbi Cherkaoui ha messo in cortocircuito lo spirito occidentale, europeo individualista, formalmente cattolico (anche se poi sostanzialmente laico) trasmesso dalla madre con la cultura comunitario-tradizionale di ascendenza nord-africana e musulmana paterna. In termini coreografici ha intrecciato voracemente tutte le danze teatrali apprese durante l’infanzia e tutte le tecniche corporee con cui nella sua carriera è venuto a contatto. Akram Kahn, nato in una famiglia induista-musulmana, migrata in Inghilterra dopo la dichiarazione d’indipendenza del Bangladesh, ha riportato con forza all’attenzione del pubblico britannico filosofie e forme della danza classica Kathak (passione trasmessagli prevalentemente dalla madre), integrandola a una danza contemporanea fresca e vigorosa. Stessa generazione, quindi, entrambi con forti radici in culture tradizionali orientali integratesi rapidamente nella società europea occidentale; cresciuti a Michael Jackson e Madonna, entrambi di statura non troppo alta, ma con un carisma che riempie da solo teatri da più di mille posti, Sidi Larbi e Akram Khan sono artisti molto generosi e dalla carriera (seppur ancora breve) del tutto folgorante, che problematizzano e usano creativamente le loro identità per stimolare immaginari mancanti, capaci di riflettere a fondo sulle realtà sociali in senso post-nazionalistico.
Sappiamo bene ormai che quell’identità nomadica Europea di cui ha parlato Rosi Braidotti (Cfr. R. Braidotti, Transpositions: On Nomadic Ethics, Polity Press, Cambridge 2006 e R. Braidotti, Nomadic Theory: The Portable Rosi Braidotti, New York, Columbia University Press, 2011), ossia un territorio fisico e mentale in cui oggi ci muoviamo liberamente sia in termini di dislocazione geografica che di negoziazione delle tradizioni, è in realtà caratterizzata al suo stesso interno da storie, lingue e geografie ben specifiche e ancora molto radicate, che alimentano la costruzione di identità multiple e nel migliore dei casi operano in funzione di nuova comunità sostenibile e responsabile. Gli artisti di cui sopra hanno evidenziato con la loro danza che i movimenti attraverso cui ci esprimiamo determinano sì i limiti della nostra esistenza, ma creano anche delle opportunità, un incrocio di confini, linguaggi e culture. La permeabilità delle frontiere tra universo delle cose e universo dell’immaginazione, infatti, rende ormai quasi intollerabile il concetto stesso di frontiera; del resto il viaggio ha a che fare ormai con la dislocazione continua di se stessi, che genera un modo di vivere sempre “in transito”. C’è da chiedersi rispetto al presente: il territorio è o no un segno d’identità? Cos’è l‘identità? Qualcosa che riguarda il singolo o la collettività? Sidi Larbi ha più volte parlato di “in-beteween identity” (Cfr. in particolare G. Cools, In-between Dance Cultures. On the Migratory Artistic Identity of Sidi Larbi Cherkaoui and Akram Khan, Valiz, Amsterdam, 2015), ovvero di un modo di concepire la propria persona come un processo aperto, un’oscillazione tra due polarità in tensione, un dialogo sempre attivo che – direbbe Andrée Grau, antropologa scomparsa di recente e a cui va tutta la nostra gratitudine per il prezioso contributo dato agli studi in danza ‒ si costruisce attraverso il contatto onesto con l’altro. Portavoce dell’ibridità come esperienza somatica in numerosissimi spettacoli – tra cui Apocrifu del 2007 (con l’ensemble polifonico còrso A Filetta), Sutra del 2008 (con i Monaci buddisti del Tempio Shaolin e lo scultore Anthony Gormley), Dunas del 2009 (con la ballerina di flamenco Maria Pagés), Play del 2011 (con la danzatrice indiana kuchipudi Shantala Shivalingappa), senza dimenticare il Boléro del 2013 in collaborazione con Marina Abramovic per l’Opéra de Paris – Larbi, a capo della sua compagnia Eastman dal 2010, e oggi parallelamente direttore artistico del Royal Ballet of Flanders, è antesignano di una danza relazionale che innesca una connessione diretta col mondo esterno, ma allo stesso tempo onora i Maestri cui si rifà incessantemente, per continuare delle tradizioni. Nel suo ultimo spettacolo ospitato da Romaeuropa Festival, Fractus V, ha affrontato nuovamente il tema delle differenze culturali, della crisi identitaria, della frattura per l’appunto, con attenzione alla situazione dei migranti che fuggono la sofferenza e attraversano ormai con ritmo incessante il Mediterraneo in cerca di un posto in cui andare, ma anche con un occhio alle tematiche di genere e all’analisi delle sfumature di energia interiore. Per questo pezzo Larbi ha rinnovato la consuetudine – come racconta nell’intervista per il programma di sala – di lavorare con persone provenienti da varie aree geografiche, che insieme hanno riflettuto sulla possibilità di far convivere diversi vocabolari musicali, coreografici, culturali verso un immaginario polifonico potente.
IDENTITÀ COME NARRAZIONE
Così come Sidi Larbi, anche Akram Khan è convinto che l’incorporazione d’informazioni e di saperi richieda un lungo tempo e che ogni atto creativo sia essenzialmente trasformativo perché traduce un gran numero di fonti in un nuovo lavoro; restio ad accelerare questo processo per evitare il rischio di mutazioni troppo radicali, nelle sue produzioni ha sempre valorizzato i principi di eterogeneità, fusione, molteplicità, complessità, caratteristiche che si sposano naturalmente con l’idea di “contemporaneo”. Sarà proprio Akram Khan a inaugurare la prima edizione di REf Kids, rassegna che quest’anno Romaeuropa Festival dedica alle famiglie e ai bambini. Dopo il successo internazionale di Desh, con il quale si aprì il medesimo Festival nel 2012, il celebre coreografo e danzatore presenterà fino al 12 novembre al Teatro Vascello una versione tutta per l’infanzia di questo spettacolo, Chotto Desh – dal programma di sala – “un sogno a occhi aperti che tra danza, musica, testo e animazioni video, racconta le fasi più delicate della crescita di un individuo, la relazione con i propri genitori, la ricerca della propria identità”. A interagire con Khan in scena saranno “le animazioni oniriche di enormi elefanti, simpatici coccodrilli, nuvole di farfalle, alberi, fiori e piante”. In questo caso il fatto autobiografico – una costante per il coreografo britannico-indiano e per il suo collega belga-marocchino – è considerato come premessa per andare a fondo e regalare al pubblico un percorso di lettura condiviso. Il sogno di libertà di un ragazzino che aspira a diventare un danzatore e che trova degli impedimenti da parte della famiglia, del padre in particolare, non può essere appunto circoscritto al fatto di appartenere a una famiglia immigrata multiculturale, ma è un tema ovunque attualissimo, ancora tutto da discutere. Khan rappresenta suo padre disegnandosi un volto sulla testa, inclinandolo verso di noi e dandogli voce; inizialmente spaesante, questa impeccabile sincronizzazione coreografica tra dialogo e movimento promette una lettura sottile ma comprensibile a tutti, in cui presenze reali e immaginate s’interfacciano galleggiando in scena dentro e fuori dal corpo, secondo la seducente logica del sogno. Di questo autore ricordiamo una serie di creazioni realizzate in soli dieci anni, tra cui Vertical Road (2010), Gnosis (2010) Desh (2011) e iTMOi (2013), oltre alle collaborazioni con numerosi artisti di fama mondiale, afferenti a culture e discipline diverse, tra i quali: il National Ballet of China, l’attrice Juliette Binoche, l’étoile Sylvie Guillem, la cantante Kylie Minogue, e visual artist come Anish Kapoor, Antony Gormley e Tim Yip, lo scrittore Hanif Kureishi e i compositori Steve Reich, Nitin Sawhney, Jocelyn Pook e Ben Frost. Grande conoscitore della danza Katak, appresa in modo sistematico dalla sua insegnante indiana Sri Pratap Pawar e usata nelle sue creazioni come fonte essenziale per l’arricchimento della danza dei nostri giorni, Akram Khan – indimenticabile protagonista a soli 13 anni del Mahabarata di Peter Brook e dal 2000 a oggi direttore, insieme al produttore Farooq Chaudhry, della Akram Khan Company, ai cui danzatori e musicisti ha sempre offerto in prima persona un insegnamento di AKCT (Advanced Kathak and Choreographic Training) – ha disatteso con il suo stesso essere scenico, intimo ed epico, uno dei più potenti preconcetti, per usare una fortunata intuizione di Eugenio Barba, e cioè “che le tradizioni, mutando si degradino”. Il mutare è alla base di una dialettica fra conservazione e innovazione, ricorda l’ultimo dei maestri occidentali viventi, e “questa dialettica può avvenire solo quando vi sono artisti in grado di riformulare, a volte persino rendendole irriconoscibili, le forme che hanno radici nella loro conoscenza tacita” (E. Barba, Conoscenza tacita: dispersione ed eredità, in «Teatro e Storia», Annali 5-6, XIII-XIV, 1998-1999, pp. 39-58: 50).
AUTENTICITÀ IN BILICO FRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE
Nonostante svariate migrazioni stilistiche e continui moti di allontanamento dalle radici, le tecniche coreografiche inventate da questi due autori per necessità espressiva autentica e viscerale, non sembrano mai tagliare in modo netto i legami con la tradizione, paradossalmente anche quando la riscrivono, quando si “emancipano”. L’eco delle origini sopravvive nei metodi d’insegnamento usati come base per apprendere e trasmettere una danza carica di responsabilità, un patrimonio immenso di memorie da conservare con il valore aggiunto del proprio essere individui a contatto con altri individui nell’immediato presente; avvicinamento, questo, che avviene per una naturale convergenza di punti di vista, per analogia di visioni artistiche, prima ancora che per una qualche generica uniformità fisica, religiosa o di pensiero.
Sidi Larbi e Akram Khan – senza dimenticare Saburo Teshigawara, giapponese attivo in Germania, che non proviene da una formazione di teatrodanza Kabuki né di danza moderna nipponica Butoh, ma da una formazione di balletto classico occidentale che confluisce in uno stile guizzante in bilico tra concentrazione lenta e velocità esplosiva e Shen Wei, cinese attivo a New York, con studi di belle arti e di opera del suo Paese, che ha firmato lavori di “metissage” tra codici orientali e occidentali – sono tra quei coreografi che mettono in atto un riferimento inequivocabile ai rispettivi luoghi di provenienza e formazione; nonostante questo bisogno vitale di riconoscere le proprie radici in diversi Paesi e nel contatto con diverse personalità creatrici, spesso parimenti determinanti per la definizione di una visione della danza del tutto originale, lasciano spazio a un rinnovamento delle fonti, declinando poetiche riconfigurate.
IDENTITÀ CON-FUSE, PROSPETTIVE ALLARGATE
Sembra opportuno oggi considerare quei lavori che riconoscono e mettono in forma strategie di assorbimento e rievocazione di memorie sommerse, tenendo conto che l’arte coreutica – come ha notato Susan Melrose – è un “sistema stabilizzato auto-destabilizzante, aperto alla trasformazione interna” (S. Melrose, Expert-intuitive processing and the logics of production. Struggles in (the wording of) creative decision-making in “dance”, in J. Butterworth, L. Wildschut, Contemporary Choreography, London, Routledge, 2009, pp. 23-37: 25) a partire dal quale il coreografo, in collaborazione con i danzatori, genera sempre nuove possibilità. La danza, cioè, si trasforma per natura, si evolve attraverso un mosaico di forme che, lungi da essere fissate, possono moltiplicarsi in modo infinito e indefinito attraverso la formazione d’identità non fuse ma “con-fuse”, per dar vita a una modalità di condivisione che non azzera le differenze, bensì allarga in maniera esponenziale le possibilità di senso del concetto stesso di danza.
‒ Francesca Magnini
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