Schermo dell’arte Film Festival 2017. Intervista alla direttrice Silvia Lucchesi
Quante e quali sono le interazioni tra cinema e arte? Dal 15 al 19 novembre torna a Firenze Lo schermo dell’arte Film Festival che compie dieci anni.
Ventisei film d’artista e documentari con molte anteprime italiane e tre mondiali, una mostra curata da Leonardo Bigazzi con le opere di venti autori, due progetti di formazione, cinque premi per artisti. Un decennale speciale, una tappa importante per il festival. Un’edizione che inizia con un’apertura d’eccezione: per la prima volta a Firenze la performance musicale Superstructure di Hassan Khan, al quale è dedicato anche un focus, e subito dopo la prima italiana di 24 Frames di Abbas Kiarostami, ultimato pochi mesi prima della scomparsa del regista.
Di tutto questo abbiamo parlato con la direttrice dello schermo dell’arte Film Festival, Silvia Lucchesi.
Prima di tutto, Lo schermo dell’arte Film Festival si concentra su film o video arte? Troppo spesso lo spettatore fa confusione tra i due…
Se per facilità si vuole riconoscere alla sala cinematografica il ruolo di luogo deputato in cui si mostra il cinema, e alla sala di un museo o di una galleria il luogo in cui si espone video arte, si opera una semplificazione di una realtà ben più complessa. Si incorre nello stesso errore se si vuole operare una separazione dal punto di vista del linguaggio: lineare e narrativo da una parte, una riflessione sul mezzo specifico dall’altra. Tra cinema e arte ci sono sempre stati rapporti e filiazioni e, fin dalle sue origini, il cinema ha guardato all’arte e viceversa, in un rapporto stimolante e di influenza reciproca. Gli artisti che realizzano film a soggetto, cioè che passano dalla produzione di moving images alla produzione cinematografica, oggi non sono più casi isolati. È un fenomeno che stiamo registrando con Feature Expanded, il programma di workshop e incontri che curiamo insieme a HOME di Manchester, che seleziona ogni anno dodici progetti di film di artisti che per la prima volta vogliono realizzare lungometraggi. Tra i nomi di questa terza edizione ci sono ad esempio Pauline Curnier Jardin, che è presente con un suo lavoro alla Biennale di Venezia, e Angela Anderson che è a Documenta. Il festival si è posto come principale obiettivo quello di indagare questa complessità aprendo quesiti più che dando risposte.
Come è cambiato il cinema d’arte in questi dieci anni?
L’aspetto maggiormente rilevante è senza dubbio la più ampia disponibilità e maggiore varietà di mezzi tecnici alla portata degli artisti. La transizione da analogico a digitale, la rivoluzione tecnologica degli ultimi anni, la rapidità con cui le immagini sono condivise e consumate grazie alla rete, la modellazione 3D, la realtà virtuale, hanno influenzato lo sguardo degli artisti, soprattutto della generazione nata sotto il segno di internet, ampliando le possibilità dell’arte e modificando il linguaggio video con scelte estetiche e formali ormai ben riconoscibili. Con il nostro progetto Visio. European Programme for Artists’ Moving Images, giunto quest’anno alla sua sesta edizione e strutturato in una serie di incontri e seminari dedicati all’approfondimento delle tematiche e della visione degli artisti che usano le moving images, indaghiamo proprio tale cambiamento.
Per quanto riguarda i film d’artista, come interviene Lo schermo dell’arte Film Festival? Si pone solo come vetrina o crea contatti reali di distribuzione?
La diffusione del cinema d’artista è centrale nella nostra attività durante l’anno e crediamo che questo aspetto, su cui già stiamo lavorando, sarà la nuova sfida che ci impegnerà nel prossimo futuro. Stiamo parlando di nuovi modelli di distribuzione che possono coinvolgere luoghi diversi dalla sala cinematografica, come i centri d’arte, università, musei, piattaforme internet, canali televisivi. È un tema all’attenzione anche di altri festival internazionali con i quali collaboriamo che, come Lo schermo dell’arte, presentano i film realizzati dagli artisti. Ogni anno riproponiamo i film che passano al nostro festival in altre occasioni. Ne è un esempio la rassegna che curiamo con il Teatrino di Palazzo Grassi che nel 2018 arriverà alla sua quinta edizione. Oppure l’esperienza di distribuzione non theatrical che abbiamo fatto con i film Station to Station di Doug Aitken e Sudan di Luca Trevisani, che abbiamo anche co-prodotto.
Per la decima edizione quali sono gli eventi imperdibili e quale è il filo rosso di tutto il festival?
Volevamo celebrare il nostro decennale con qualche cosa di veramente speciale, e la serata inaugurale del festival, mercoledì 15 novembre al cinema La Compagnia, lo sarà senza dubbio. Per la prima volta infatti portiamo a Firenze la performance musicale Superstructure di Hassan Khan, al quale dedichiamo il focus di questa edizione con tre suoi video e una lecture. Dopo il suo live, avremo la prima italiana di 24 Frames di Abbas Kiarostami, ultimato pochi mesi prima della sua scomparsa. È un film straordinario su cui Kiarostami ha lavorato per tre anni usando strumenti digitali, inserti 3D e green screen, nel quale ha unito fotografia e cinema, i due linguaggi ai quali ha dedicato la via. Altro momento importante del festival di quest’anno è la mostra Directing the Real. Artists’ Film and Video in the 2010s, curata di Leonardo Bigazzi nella Sala delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi che riunisce i lavori di diciannove artisti internazionali under 35, con la quale proseguiamo il nostro impegno nei confronti della promozione della nuova generazione che lavora con le moving images.
E poi?
Fra gli altri highlights del programma c’è Wipping Zombie, il nuovo lavoro di Yuri Ancarani su un rituale vodoo dell’isola di Haiti mai filmato prima d’ora; le prime mondiali di due film su Parreno e Villar Rojas della nuova serie Live Art di ARTE TV ideata da Hans Ulrich Obrist, che andranno in onda nei primi mesi del 2018; il primo film di Virgilio Sieni, Il giardino delle erbacce, una performance creata appositamente per la macchina da presa che riflette sul tema del rapporto tra uomo e natura; le prime italiane dei film su Beuys, un monumentale film con inediti materiali di archivio che era in concorso all’ultimo Festival di Berlino e su Antonio Lopez, il disegnatore di moda più famoso degli Anni Settanta che lavorò con Saint Laurent e Lagerfeld; i film di Rosald Nashashibi, Hiwa K e Roee Rosen che erano nel programma di Documenta; i lungometraggi a soggetto Looking for Oum Kulthum di Shirin Neshat e Controfigura di Rä Di Martino; l’ultimo video di Adrian Paci Interregnum, un assemblaggio di immagini recuperate negli archivi di Paesi ex comunisti che mostrano i funerali dei dittatori che li governarono. Ci interessano quegli artisti che dalla realtà che li circonda traggono le ragioni stesse del loro fare. I ventisei film di questa edizione raccontano temi sociali, politici ed etici del mondo e del tempo in cui siamo immersi, la storia, l’immigrazione, l’ambiente, il rapporto tra l’uomo e la natura, la diversità, la libertà di espressione.
Che rapporto c’è fra il festival e la città? E c’è rapporto con quello che negli ultimi tempi sta facendo Sergio Risaliti sul contemporaneo?
Lo schermo dell’arte si configura come un progetto diffuso nella città con una rete di collaborazioni con le istituzioni che qui vi operano e che ogni anno si rinnova. Palazzo Strozzi, il Museo Novecento, CANGO Cantieri Goldonetta, l’Istituto francese, la Fondazione Sistema Toscana con il Cinema la Compagnia sono da sempre nostri preziosi partner. Quest’anno il programma si arricchisce inoltre di Moving Archive, un programma di cinque film del nostro archivio che presenteremo nelle biblioteche di nove comuni della Città Metropolitana di Firenze.
Il cinema negli ultimi anni sta dedicando maggiore spazio all’arte e in Italia le sale sembrano essere interessate a eventi mirati di questo tipo. Penso a un film recente come Loving Vincent, che in soli due giorni ha letteralmente dominato, più che conquistato, il botteghino. Come si spiega?
I documentari sull’arte contemporanea sono film a tutti gli effetti. Rispondono alle regole della produzione e della distribuzione cinematografica. Oggi sono un prodotto di successo, più che in passato, sebbene questo genere di cinematografia sia sempre esistita, perché rispondono a fattori che definirei socio-antropologici. Da una parte cavalcano il fascino che ha sempre circondato il mito della figura dell’artista con i suoi “capricci” e “furori; dall’altra la domanda di prodotti audiovisivi, tra cui i documentari, si è profondamente differenziata con la nascita di un nuovo tipo di distribuzione che si è strutturata in serate/evento, dei canali televisivi digitali e delle piattaforme di cinema on demand e streaming.
‒ Margherita Bordino
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