La genesi dell’arte generativa. Computer art in mostra a Venezia

Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia ‒ fino al 3 dicembre 2017. La Galleria di Piazza San Marco ospita una rassegna interamente dedicata all’arte computazionale. Abbiamo intervistato la curatrice, Francesca Franco.

In un simile momento storico, caratterizzato soprattutto dall’utilizzo quotidiano sempre più indispensabile di uno strumento come il computer e dall’assimilazione di neologismi destinati a diventare inflazionati in brevissimo tempo (come ad esempio il termine “post internet”), la curatrice Francesca Franco e la Fondazione Bevilacqua La Masa hanno avuto un’intuizione apparentemente contro tendenza: allestire una mostra che, affrontando il passato (e dunque l’origine di un certo fenomeno), arrivasse a parlare non solo del presente, ma anche del futuro della nostra condizione. Algorithmic Signs prende in analisi cinque massimi esponenti dell’arte generativa per raccontare, attraverso una mostra esaustiva, uno dei fenomeni più influenti, e paradossalmente meno approfonditi, del nostro secolo: la computer art.
Sviluppatasi soprattutto negli Anni ’80, l’arte generativa è figlia in realtà delle prime sperimentazioni avvenute durante gli Anni ’60 ‒ si pensi per esempio alla celebre mostra Arte programmata organizzata nel 1962 da Bruno Munari e Giorgio Soavi all’interno del negozio Olivetti di Milano, che ha previsto la realizzazione di opere concepite per l’appunto con programmi di calcolo capaci di consentire variazioni cromatiche e formali, più o meno casuali, riproducibili all’infinito.

I CINQUE PIONIERI

È proprio questa fertile decade, infatti, che ha visto i cinque pionieri dell’arte algoritmica (Ernest Edmonds, Manfred Mohr, Vera Molna’r, Frieder Nake e Roman Verostko) muovere i primi passi, influenzati soprattutto dalle teorie del filosofo Tedesco Max Bense e dal suo testo Information Aesthetics. Il concetto che il valore numerico, elaborato non esclusivamente dall’essere umano, possa determinare l’estetica stessa di un oggetto è la chiave di lettura necessaria per comprendere il passaggio dal concepimento di un’idea alla realizzazione concreta, da parte di una macchina, di un’opera d’arte. In questo modo, grazie a particolari dispositivi tecnologici come plotter e computer, è possibile creare un dialogo tra strutture geometriche (figlie della tradizione costruttivista russa) e linguaggi digitali.
L’algoritmo viene quindi inteso sì come uno strumento di controllo, ma in un’accezione molto più costruttiva e positiva rispetto a come, con lo sviluppo di internet e dei social network, siamo ormai abituati a concepirlo.
Fatta eccezione per alcuni episodi, come l’annuale conferenza sull’arte generativa che dal 1998 viene promossa in Italia dal professore Celestino Soddu o l’ampia sala dell’Orangerie di Kassel dedicata interamente all’innovatore finlandese Erkki Kurenniemi in occasione della tredicesima dOCUMENTA del 2012, non si tende spesso a dare il giusto peso alle origini dell’arte generata al computer.
Nell’ordine di comprendere meglio certe dinamiche e di scoprire l’urgenza che ha portato alla realizzazione di un’esposizione simile, abbiamo fatto alcune domande alla mente che si trova dietro questo progetto: Francesca Franco.

Manfred Mohr, P1011_Ms, 2004

Manfred Mohr, P1011_Ms, 2004

L’INTERVISTA

Per quanto a un primo acchito possa sembrare tutto estremamente caotico e disordinato, le opere presentate all’interno di Algorithmic Signs sono in realtà frutto di calcoli matematici ben precisi: nulla è lasciato al caso. Viene dunque da pensare che anche la scelta di un contesto come quello veneziano non sia affatto casuale. Puoi spiegarci i legami che ci sono tra l’arte degli algoritmi e la città di Venezia? Credi che una locuzione come hic et nunc possa descrivere a pieno il senso di questa mostra?
Certo, la scelta di Venezia non è stata casuale. È stata una scelta motivata sia da fattori personali sia storici. Sono nata e ho studiato storia dell’arte a Venezia prima di trasferirmi a Londra dove ho proseguito i miei studi di master e di dottorato, per poi continuare il mio lavoro di ricerca a Cambridge. Questa è stata la prima occasione per me di portare le mie ricerche degli ultimi dieci anni in Italia, e non potevo sperare in una sede migliore della Bevilacqua La Masa per questo scopo. Ci sono anche motivazioni storiche che mi hanno immediatamente fatto gravitare verso Venezia per questa mostra. È proprio qui, alla Biennale del 1970, che la computer art ha avuto il proprio “battesimo” italiano, e sono particolarmente contenta di essere riuscita a portare di nuovo in laguna non solo alcuni tra i più celebrati pionieri della computer art internazionali, ma anche una delle opere originariamente esposte in quell’occasione (Matrix Multiplication di Frieder Nake). Spero che grazie a questa mostra si riesca a stimolare un dialogo sul ruolo della computazione nell’arte contemporanea e a dimostrare non solo la vitalità di questa forma d’arte, ma anche i suoi legami con il passato e le tradizioni artistiche che l’hanno ispirata.

Nonostante diverse opere esposte abbiano oramai più di cinquant’anni, si pensi in particolar modo ai lavori di Vera Molna’r e di Frieder Nake, viene quasi spontaneo associare a ogni forma e a determinati colori delle note (o comunque delle suggestioni sonore) proprie della musica elettronica contemporanea. È quasi impossibile osservare la mostra senza pensare a gruppi come i Kraftwerk e gli Autechre o a correnti musicali come l’ambient e l’IDM. Come la spieghi questa forza sinestetica molto vicina alla premonizione?
Esistono sicuramente dei legami molto profondi tra le sperimentazioni elettroniche audio e quelle visive. Alcuni degli stessi artisti che partecipano alla mostra vengono da un passato musicale e i lavori che hanno prodotto dagli Anni Sessanta a oggi sono fortemente influenzati dalla musica, in particolare dall’improvvisazione jazz, dal serialismo e la dodecafonia di Schoenberg fino alle ultime ricerche elettroniche. È interessante pensare che Manfred Mohr, prima di dedicarsi alle sperimentazioni algoritmiche nelle arti visive, cominciò la propria carriera artistica come sassofonista jazz e insieme al suo Group 60 Pforzheim registrò un album nel 1962. Fu proprio grazie all’incoraggiamento ricevuto da un compositore di musica algoritmica, Pierre Barbaud, che Mohr decise di intraprendere i primi esperimenti nella programmazione e di creare i primi disegni al computer nel 1969. Questa passione per l’improvvisazione, la serialità e il ritmo permangono ancora nelle sue opere più recenti, come ad esempio in alcuni lavori generativi su video che abbiamo in mostra.

Ernest Edmonds, Forty Five, 1975

Ernest Edmonds, Forty Five, 1975

Vale lo stesso anche per gli altri artisti?
Anche Ernest Edmonds ha dimostrato più volte come la musica seriale abbia influenzato alcune sue opere generative e interattive. Questa passione si è tramutata in collaborazioni con compositori di musica elettronica come Mark Fell, e in performance audio visive di tipo generativo che continuano da più di dieci anni. L’ultima di queste è avvenuta proprio la settimana precedente l’apertura di Algorithmic Signs nel famoso Cafe Oto di Londra, conosciuto soprattutto per i concerti di musica sperimentale e d’avanguardia, dal free jazz al noise allo psych rock fino alle ultime sperimentazioni elettroniche.

Prendendo in analisi una parte del testo presente all’interno del catalogo della mostra, scritto dal tuo collaboratore per questa mostra, Stefano Coletto, si viene esortati a individuare anche in opere oramai storicizzate (come le variazioni dei cubi aperti di Sol LeWitt o le istruzioni performative dettate da Yoko Ono) una natura principalmente algoritmica. Ciononostante si fa ancora un po’ fatica, soprattutto da parte delle istituzioni, ad accettare completamente questi tipi di approcci. Come mai?
Direi che è stato sempre così. Anche nel momento in cui, a partire dal 1970, l’arte algoritmica sembrava essere stata finalmente accettata da istituzioni culturali importanti come la stessa Biennale, questa stessa arte è stata quasi sempre accompagnata da scetticismo. Questo sentimento ha continuato a persistere nel tempo fino ai nostri giorni. Anche la fotografia ha subito in parte lo stesso trattamento, sia da parte della critica sia del pubblico più vasto. Storicamente, esiste una certa reticenza nei confronti di forme d’arte che minano il concetto di unicità dell’opera d’arte. E penso che anche la computer art non sia mai stata veramente considerata allo stesso livello di altre forme d’arte ormai consolidate proprio per questo motivo.

Vera Molnar, Chute de 7 rectangles, 2013

Vera Molnar, Chute de 7 rectangles, 2013

Che cosa ti auguri per il futuro?
Spero che grazie all’introduzione e alla conoscenza dell’opera dei pionieri della computer art offerte da Algorithmic Signs, e grazie anche alla storicizzazione di questo campo, ne venga agevolata la sua comprensione, soprattutto in un Paese come l’Italia che è stato la culla di avanguardie e sperimentazioni artistiche rivelatesi fondamentali in campo internazionale. Spero anche che tramite questa mostra, un argomento come la computer art, finora considerato principalmente di nicchia e sviluppato quasi esclusivamente nel mondo accademico, stimoli un dialogo sul ruolo creativo e dinamico della computazione nell’arte contemporanea che coinvolga un pubblico più ampio e non specialistico.

Valerio Veneruso

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Valerio Veneruso

Valerio Veneruso

Esploratore visivo nato a Napoli nel 1984. Si occupa, sia come artista che come curatore indipendente, dell’impatto delle immagini nella società contemporanea e di tutto ciò che è legato alla sperimentazione audiovideo. Tra le mostre recenti: la personale RUBEDODOOM –…

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