Architetti d’Italia. Carlo Ratti, l’ottimista
Nuovo capitolo della saga di Luigi Prestinenza Puglisi sull’architettura italiana. Stavolta tocca a Carlo Ratti, sostenitore di un minimalismo funzionale e ad alto tasso tecnologico.
I due progettisti italiani che tra dieci anni occuperanno la scena internazionale saranno Stefano Boeri e Carlo Ratti. E questo anche se vi sono, tra i loro coetanei oggi sessantenni e quarantacinquenni, personaggi non meno, se non più dotati, sotto il profilo formale.
Non sempre la scala dei valori artistici coincide con quella della notorietà. E quest’ultima non corrisponde con il fatturato. Sono rimasto colpito dal fatto che, secondo i dati forniti dal Sole 24 Ore, Boeri, nonostante il planetario successo del Bosco Verticale, non sia entrato per volume d’affari neanche nella classifica dei primi 50 studi d’architettura italiani. Mentre ha costituito una sorpresa il fatto che già ci sia entrato Carlo Ratti, sia pure con il 48esimo posto, tra Francesco Paszkowski Design e Officina Italiana Design.
Perché una previsione da qui a dieci anni? Perché gli unici due che abbiano cavalcato i trend che saranno sempre più dominanti, riuscendo a calamitare sulle loro ricerche l’attenzione dell’opinione pubblica, sono proprio loro. Provate a immaginare di essere giornalisti in una redazione di un settimanale o di un quotidiano e che vi serva un veloce commento. A chi vi rivolgereste? Se il tema è l’ecologia e il verde sicuramente a Stefano Boeri, se il rapporto è tra spazio costruito e nuove tecnologie a Carlo Ratti. Nessuno come loro ha saputo e sa essere un migliore testimonial del proprio prodotto. E difatti, nel caso di Ratti, già Esquire lo ha inserito tra i Best & Brightest, Forbes tra i Names You Need to Know, Wired nella lista delle 50 persone che cambieranno il mondo, Thames & Hudson tra i 60 innovatori che daranno forma al nostro futuro.
LE ACCUSE
L’accusa che si muove a Ratti è che ha costruito poco e scritto troppo. Tanto più che i suoi progetti più noti investono solo lateralmente l’architettura: come, per esempio, i sistemi di diffusione del calore in relazione alla localizzazione dell’utente all’interno di un edificio oppure il tracciamento dei percorsi di smaltimento e/o di riciclo che subiscono i rifiuti urbani prodotti da una città degli Stati Uniti.
Nei libri che pubblica, mostrando di saper padroneggiare il più antico strumento di promozione delle idee che è il manifesto teorico, Ratti parla di Architettura Open Source, e cioè del processo progettuale inteso come opera aperta al contributo dei nuovi modelli di partecipazione in rete`. Oppure, come nel recente La città di domani, punta l’accento sui fattori immateriali che la rivoluzione digitale ha introdotto per direzionare lo sviluppo dell’habitat contemporaneo.
Ciò che più innervosisce un pubblico di architetti, tradizionalmente ancorato alla materialità del mattone e frequentatore di letture catastrofiste, da Heidegger a Virilio, è il tono ottimista: la fiducia nella tecnologia, la certezza di poter costruire il nostro domani, l’amore per il nuovo e l’interesse per la sperimentazione. Infine, la decisa scelta di campo occidentale. Ratti è torinese, insegna al MIT di Boston, viaggia da un capo all’altro del mondo. Crede nel capitalismo avanzato e nel potere del denaro, tratta progetti di centinaia di milioni di euro e, infine, è ingegnere. Non sogna di vivere nella baita nella Foresta Nera e, quando parla, sembra incarnare perfettamente il ruolo del comunicatore così come è descritto nei testi canonici anglosassoni, quelli per capirci alla Dale Carnegie che consigliano di essere persuasivi, di sorridere e di aiutarsi con una ben disegnata serie di slide in Power Point. Inoltre scrive per farsi capire: evita frasi astruse e porta i suoi argomenti alle logiche conseguenze. Non piace quindi a un pubblico che ama scrivere Teoria con la T maiuscola e venera pensatori che non si riesce a leggere oltre le prime otto righe.
La seconda e imperdonabile colpa attribuita a Ratti è la sua opzione per una cultura alla Buckminster Fuller e cioè per coloro che hanno sempre pensato che un problema vada risolto e non rappresentato. Vi ricordate quando Bucky riassumeva il suo punto di vista sulla leggerezza nella domanda “Signora, quanto pesa la sua casa?” o criticava Le Corbusier per il fatto di parlare di macchine per abitare che, però, con un controsenso permesso solo agli architetti, realizzava in mattoni, pietre e intonaco, e quindi con una tecnologia antitetica a quella industriale? Risultato? Buckminster subì una damnatio memoriae da parte degli architetti i quali ancora oggi venerano Villa Savoye, ritenendola un prototipo della modernità, e conoscono appena la Dymaxion, che, infinitamente più innovativa, fu pensata e realizzata un paio di anni prima. Ma erano altri tempi e Steve Jobs non era ancora all’opera.
UN MINIMALISMO FUNZIONALE E CREATIVO
Torniamo a Ratti: il linguaggio, il gioco delle forme, sembra contare poco e niente nei suoi progetti. La sua scelta espressiva va verso un minimalismo funzionale e creativo. Lontano quindi dagli estremi poetici alla Mies o alla Sejima, ma attento sempre al fatto che la forma debba essere esatta. Non un funzionalismo da Existenz minimum, ma uno stile in linea con gli standard di una società evoluta che produce gli iPhone della Apple, le automobili elettriche e i prodotti tecnologici interattivi, personalizzabili e di largo consumo. Ratti è pur sempre un poeta della tecnologia, non un arido tecnologo.
E difatti il suo racconto più bello è a proposito del Digital Water Pavilion realizzato per l’esposizione di Saragozza del 2008. Un padiglione le cui pareti erano realizzate con getti d’acqua, gestite da un sofisticato sistema di sensori. Pare che a un certo punto il sistema sia impazzito. Per la felicità dei bambini che si sono trovati a interagire con un gioco inaspettato. Interattivo solo nella misura in cui fossero stati i ragazzi a saper individuare delle contromisure a ogni mossa imprevista della struttura. “È questa imprevedibilità casuale della macchina”, racconta Ratti, “che ha trasformato una struttura programmata in un’opera aperta. Mostrandoci che l’uso che dobbiamo fare della tecnologia è ancora tutto da inventare e da scoprire”.
Dicevamo prima dei debiti di Ratti verso la ricerca di Buckminster Fuller. Sarebbe però un errore voler avvicinare troppo i due personaggi: uno è pur sempre il prodotto di una società meccanica, tesa alla costruzione di prototipi, che puntava sull’industrializzazione di massa e credeva nella standardizzazione del prodotto. Ratti invece vive nell’età digitale dove i flussi di informazione hanno preso il posto delle cose concrete. Che non punta più alla realizzazione di pezzi tutti uguali, ma alla singolarità del pezzo. Disillusa sui destini progressivi della ragione ma, nello stesso tempo, decisa a perseguire un futuro migliore. Che sa bene quali siano gli immensi pericoli di un domani in cui anche la nostra privacy sarà trasparente agli elaboratori di dati, ma nello stesso tempo è convinta che non ci siano altre soluzioni che perseguire la tecnologizzazione del mondo.
NON SOLO RESILIENZA
Viene spontaneo a questo punto muovere a Ratti l’obiezione che se a impazzire non fosse stata la centralina di un padiglione acquatico ma di una centrale termonucleare, il gioco non sarebbe stato affatto divertente. E che, intellettualizzando il mondo, trasformandolo in un quantum manipolabile di informazioni, alla fine perderemo il corpo. La sua negatività, la sua ombra, la sua pesantezza. Che poi sono dimensioni tanto umane quanto l’intelligenza astratta, la leggerezza, l’interattività o, per usare due parole oggi consumate, l’essere smart e resilienti. Sono un po’ le obiezioni che a inizi 2017 gli muoveva Gianluca Peluffo in un confronto che ho avuto il piacere di organizzare e di moderare. Ma a questo dilemma, oggi, non è ancora dato avere risposte. Il mondo resta diviso tra coloro che, dando forma alla nostra interiorità, provano a porre le basi per un percorso di liberazione e coloro che, invece, anelano a risolvere i problemi sottraendoli dal regno del linguaggio e inserendoli nell’universo della computazione.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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