Essere-presenti-scomparendo (I). L’opera mortificata
Al via una nuova saga firmata da Christian Caliandro. Occhi puntati sui curatori di oggi, determinati a investire molto più sul display che sulle opere in quanto tali. Mortificandole e inducendo a trovare degli antidoti a questa tendenza. Un esempio? Rifiutare il dispositivo-mostra.
“L’opera non sta mai da sola,
è sempre un rapporto”.
Roberto Longhi
Perché dovrei esporre ciò che faccio privatamente (che so, in viaggio), i miei momenti, le mie immagini quotidiane (mentre sorrido per finta, magari, a beneficio di immaginari altri) su una piattaforma digitale?
In fondo, se ci pensiamo, tutto ciò che facciamo confluisce – e conflagra – a definire la nostra identità: chi siamo, e non chi vorremmo essere. Così, il nostro rapporto con la tecnologia attuale (per esempio), il nostro contegno in società, la nostra postura, ciò che leggiamo, ciò che mangiamo persino, la musica che ascoltiamo, il modo in cui parliamo e in cui pensiamo non solo sono riflessi dell’io, ma aspetti assolutamente interconnessi e interdipendenti. Ciò vuol dire che un lato non esiste, e non può esistere, senza l’altro; se ne modifichiamo o ne eliminiamo uno, gli altri scompaiono, collassano. Si può avere tutto il pacchetto, e basta: “quando mordi, prendi tutto il pezzo o niente; non soltanto una parte”.
Allo stesso modo, la dimensione morale – ciò che chiamiamo attitudine, approccio: “disposizione d’animo” – non è separabile dalla miriade di scelte, di gesti che compiamo; e, per l’artista, questa dimensione non è separabile dall’opera, per la semplice ragione che essa è l’opera, sostanzia l’opera – molto più del talento, dell’abilità tecnica, o della visione d’insieme. Un artista quindi è la propria disposizione (e su questo non può barare).
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“L’arte contemporanea, destinata dal proliferare di agenti del marketing e della comunicazione violenti e narcisi, non ha molte scelte e dovrà nutrirsi dei suoi figli: o fai parte del coro che si rinnova continuamente e batti le mani sino a spellartele, o vieni catturato ed espulso. C’è una frenesia sospetta e uno zelo militaresco che non tollerano dissensi anche di fronte a banalità eccelse. Pazienza, mi toccherà tornare a scuola a studiare l’arte contemporanea di tutti i tempi, da Roma antica ad oggi (lavoretto da poco). Non ha già l’arte per caso, trovato sulla sua strada i problemi dell’influenza e delle derivazioni, insieme alla valanga di sbarchi di sempre nuovi artisti, anzi nuovissimi, vogliosi di ingigantire il cicaleccio? Se fondassimo un partito dei desueti, raggiungeremmo la quota del 3%?” (Gian Enzo Sperone, Il Giornale dell’Arte, edizione online, 8 novembre 2017).
Prendiamo per esempio il Deposito d’Arte Italiana Presente, curato da Ilaria Bonacossa e Vittoria Martini e recentemente esposto all’interno di Artissima: intanto lo stesso Sperone, l’inventore del modello originale (Deposito d’Arte Presente, 1967-’68), ne ha preso pubblicamente le distanze; in secondo luogo, credo che un progetto di questo tipo si faccia tranquillamente portatore di una visione dell’arte contemporanea del tutto a-storica, in cui – facendo l’occhiolino a modalità che peraltro all’estero stanno quasi per passare di moda – il display mortifica abbastanza le opere. Così, il “magazzino-archivio” come dispositivo di riattivazione permanente viene sostituito da un ben più desolante “showroom”.
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Ecco, il display: sono anni ormai che sento in giro curatori affermare con baldanza e con una certa sicumera come oggi “conti soprattutto il display, più che le opere”. Ora, è chiaro che un’idea del genere rappresenta un’assurdità palese: eppure, se ha saputo conquistare per un tempo così significativo i cuori e le menti di chi poi le mostre le realizza, vuol dire che al suo interno nasconde un messaggio di una certa rilevanza, in grado potenzialmente di definire un’epoca. E il messaggio qual è, in definitiva? L’umiliazione dell’opera. Il tentativo, neanche mascherato, di svuotare l’opera di ogni potenziale trasformativo nei riguardi della realtà, dei cervelli e delle loro strutture percettive, e di ridurla a mero oggetto di decorazione/abbellimento, a merce visiva e simbolica del tutto paragonabile a una borsa, a un paio di scarpe, a un gioiello, ecc. Tanto è vero che il “display”, come pratica e come concetto, discende direttamente dalla vetrina – e dall’arte (rispettabilissima) di disporre le merci nello spazio della vetrina.
Il display è lo strumento attraverso cui il curatore – non più critico ma funzionario, funzione e facente-funzione-di, esecutore di scelte e decisioni prese altrove – relega l’artista all’ultimo posto nella scala gerarchica (del tutto ipotetica, tra l’altro), gli ricorda la sua minima importanza nel circuito ben oliato, lo mortifica per metterlo “al suo posto”.
Va da sé che l’unico modo per resistere a questa gestione distopica dell’arte consiste: nel rifiutare in blocco questo tipo di meccanismo; nell’adottare tecniche, tattiche e strategie dell’anti-display (vale a dire del nascondimento, del non esporsi, del non mettersi in mostra); e, in ultima analisi (perché questo punto di arrivo è di fatto inevitabile, oltre che inevitabilmente stimolante) nel rifiutare il dispositivo stesso della “mostra”, in auge ormai da centocinquant’anni. Perché è logico che il display, l’ossessione dell’allestimento, possa dispiegarsi unicamente all’interno di uno spazio espositivo/istituzionale (il museo, la galleria, la fiera) fintamente neutro, sterile, per sua natura esclusivo come il white cube, o al contrario saturo e ipercompresso, che sostanzialmente fa lo stesso – totalmente privo dunque della pienezza e del “rumore bianco” dell’esistenza quotidiana, delle azioni e delle relazioni umane, degli scambi e dei disturbi imprevedibili e non equivalenti, in grado di attivare in modo salutare un’opera perfettamente funzionante e trasformatrice.
Il vuoto, l’assenza di queste relazioni e di questi disturbi, è funzionale invece a opere debolissime, fragili, deprivate, anemiche, che non si reggono (da sole) se non grazie all’intervento normalizzatore e dispotico del display.
‒ Christian Caliandro
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