Professione performer. Intervista a Marina Abramović
Ieri vi abbiamo proposto un focus dettagliato sulla performance, oggi diamo voce a colei che ha fatto dell’arte performativa il suo tratto distintivo.
Venezia è una seconda casa per te che sei sempre stata qui durante le Biennali, prima e dopo il Leone d’oro del 1997.
Mi è perfino difficile camminare, conosco tutti e non riesco a vedere l’arte come vorrei.
Oggi vivi a New York però sei stata molto in Italia.
Ho avuto casa a Stromboli per diversi anni, ora è della Fondazione Fiorucci che ne ha fatta una residenza d’artista. Stromboli è stata importante per me, per l’energia del vulcano e perché lavoro da tanto tempo con Lia Rumma.
Quanto è forte il tuo rapporto con il Belpaese?
Molto, da adolescente andavo a Trieste con gli amici per comprare i jeans, eravamo comunisti e non potevamo averne, quindi era molto alla moda portare i jeans di Trieste.
La tua prima mostra è stata alla Galleria Diagramma di Milano da Luciano Inga Pin.
Poi ci fu Contemporanea con Achille Bonito Oliva, quindi Rythm 0 allo Studio Morra di Napoli e poi le mostre di Bologna, da Ginevra Grigolo e al MAMbo, dove feci la performance Imponderabilia con Ulay. A Venezia, sempre con lui, feci la performance in cui ci schiaffeggiavamo e poi a ogni Biennale ho presentato dei miei lavori. Sento di aver passato qui praticamente tutta la mia vita.
A Milano hai portato al PAC Abramović Method e hai realizzato un grande libro intitolato Lavori italiani.
Facendolo mi sono resa conto di come in Italia si sia svolta la parte maggiore della mia carriera.
Nel tuo Paese di nascita, la Serbia, come ti considerano?
Non sono mai stata capita lì, ho avuto molti problemi. Così l’Italia è stata la mia via d’uscita, il mio studio e lo spazio di condivisione emozionale. Il pubblico italiano è molto reattivo.
Hai da poco pubblicato la tua biografia in italiano, Attraversando i muri.
È stata la prima lingua in cui l’ho tradotta, poi le altre diciassette. Gli italiani capiscono davvero il mio lavoro: la gente a volte mi dice che sembro la Sofia Loren dell’arte. Questo tipo di supporto emozionale è importante per me.
Hai davvero attraversato i muri…
L’ho fatto spiritualmente, i muri non sono ostacoli ma stimoli per esercitare il potere della volontà.
La vita è piena di ostacoli.
Sì, ma la mia vita privata non è importante, sono completamente concentrata sul mio lavoro, ciò che importa è l’idea.
Un’affermazione piuttosto comunista, a cent’anni esatti dalla Rivoluzione d’Ottobre.
Lo è, tu devi fare attenzione solo alle idee, a questa verità ho dedicato tutto il mio lavoro.
Su cosa si fonda la tua spiritualità?
Credo in un’energia non razionale e divina.
La usi nelle tue performance?
Uso questo elemento come energia per il corpo.
Le tue performance si fondano sul tempo che passa e che mette alla prova.
Voglio capire quali sono i limiti del mio corpo e andare oltre.
In The Artist is Present, al MoMA di New York, hai commosso molte persone.
Ho speso la mia vita per introdurre la performance tra le principali forme d’arte e, dopo la mostra al MoMA, credo di esserci riuscita in modo definitivo.
Il tuo film The Space in Between è da poco uscito in Italia.
L’ho voluto girare in Brasile alla ricerca delle espressioni più ataviche della spiritualità.
Come arrivano le idee?
Nel film vado a imparare dai nativi cose che stanno per essere dimenticate. Facendo questo tipo di ricerche le idee mi arrivano in modo sorprendente ma naturale, all’improvviso mi appaiono come io e te seduti qui, adesso.
Idee che riguardano sempre il corpo, il suo ruolo, il suo senso e la sua posizione. Come lo tratti?
Adesso ho 71 anni, un’età molto seria. Non ho mai assunto droghe, bevuto alcol o fumato in vita mia, ho soltanto una dipendenza dalla cioccolata. La cosa importante è pensare il proprio corpo come una casa, dove lo spirito vive; e questa casa dev’essere pulita.
Idee e corpo, e lo spirito?
Il corpo invecchia ma il mio spirito è quasi lo stesso, resto bambina e mi piace, mi rende curiosa ed entusiasta per tutto quel che mi sembra nuovo. È in questo tipo di freschezza che deve mantenere il tuo spirito, nell’energia che hai quando sei più giovane.
Com’eri da giovane?
Ero ribelle e inesauribile, tanto che mi chiamavano Duracell, i miei assistenti non mi stavano dietro. Adesso prendo il mio tempo, faccio pause.
Ma la vecchiaia?
Anche se nello spirito non invecchi, il tuo corpo invecchia e lo devi accettare. Negli Stati Uniti nessuno parla della propria età e soprattutto non si celebrano i compleanni dopo i trent’anni.
Perché secondo te?
Accettare la propria età significa anche accettare la propria morte. Tutti noi ogni giorno moriamo un poco, quindi ci serve diventare amici della morte, è molto importante. Molti dei miei lavori parlano di questo. Dico sempre che bisogna imparare a morire, senza rabbia o paura e con coscienza. Mia nonna morì a 103 anni e questo è il mio ideale di morte.
Senti di avere una missione in questa vita?
Credo che noi artisti dobbiamo portare la nostra consapevolezza nella società. Vivere in un posto dove non esistono problemi, in mezzo alla natura, vuol dire vivere in uno stato di sonno, ma se vivi in posti difficili allora puoi portare qualcosa.
Ti sei definita come gran madre della performance.
L’ho detto vent’anni fa. Ora preferisco guerriera della performance.
Che non dà segni di cedimento.
I colleghi della mia generazione sono morti oppure hanno i pacemaker.
Sei preoccupata?
Sono ancora qui.
Sempre più popolare e influente.
Ma non è facile, sarebbe più facile ripetere il lavoro già fatto e magari iniziare a bere.
E invece pensi sempre più in grande. La tua performance 512 Hours alla Serpentine Gallery di Londra nel 2014 sembra segnare la direzione.
E poi in Argentina, Grecia o Svezia, dove ho tenuto performance per migliaia persone. Voglio lavorare dentro la comunità, è molto importante per me, perché voglio fare un’arte proiettata verso il futuro.
Il tuo pubblico ideale?
Non piccoli gruppi di persone del mondo dell’arte ma giovani che non frequentano necessariamente l’arte, tra i 15 e i 35 anni. I musei si stupiscono quando li vedono, ma sono loro che assumeranno la responsabilità del cambiamento, per noi è troppo tardi.
Spero di no.
Lo è, ormai abbiamo la mente già settata, i giovani invece hanno la mente più aperta e fresca.
Così tu credi in una scultura sociale, come il tuo mentore Joseph Beuys?
Certo, perché credo nella capacità di ognuno di noi di cambiare la propria coscienza.
Al festival Brilliant Minds di Stoccolma hai presentato un tuo avatar. La realtà virtuale è un modo per andare oltre il corpo, che è al centro del tuo lavoro?
Il mio avatar è più reale di me e mi permette di essere presente in molti posti allo stesso tempo.
La Biennale di Venezia tributa il Leone d’Oro alla Germania grazie alla performance di Anne Imhof, un astro nascente: l’hai vista?
Sono andata due volte per vedere la sua performance durante i giorni dell’inaugurazione ma non era in atto e credo che sia un errore. Se la mostra dura sei mesi, la performance in essa ospitata deve durare sei mesi.
Chiudiamo con l’inizio: la tua definizione di performance?
Una volta ti avrei detto che è una costruzione mentale e fisica che tu porti davanti a un pubblico, in un certo spazio e in un preciso momento per creare un potere energetico vitale e trasformativo.
‒ Nicola Davide Angerame
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #40
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