Il nuovo bianco e nero
In un’epoca di tecnologie avanzate, 3D e sale ultraccessoriate, va da sé che un film in b/n faccia scalpore. Ma non è la solita trovata furbetta. È un film che va visto, “The Artist”. Anzitutto perché è “bello”. E poi, tanto per gradire, ha inanellato un numero impressionante di premi, ultimi ben cinque Oscar.
Mentre la spettacolarizzazione cinematografica raggiunge le più alte vette, catapultando lo spettatore in una tripla dimensione fatta di precipizi, fosforescenza e frastuono, e mentre l’industria elettronica trae da questa svolta tecnologica l’occasione per riempire le case di quello stesso pubblico di televisori abnormi che ripropongono l’emozione del cinema in formato domestico, dando una violenta scossa al relax serale, a furia di viaggi nello spazio, detonatori, mitragliatori e fiabe volanti, e mentre lo spettatore, attonito e turbato, vive in uno stato di semiallucinazione perenne le proprie giornate, scandite dal rimbombare di indefinite esplosioni, dagli echi di un boato continuo, ecco The Artist. Ecco un film in bianco e nero, ecco un film muto.
Siamo alla fine degli Anni Venti negli Stati Uniti, la crisi è alle porte, il cinema sta cambiando. Un celebre attore di nome George Valentin (Jean Dujardin) è inconsapevolmente giunto al capolinea del proprio successo. Un giorno una giovane aspirante attrice di nome Peppy Miller (Bérénice Bejo) viene immortalata dai tabloid al suo fianco, per puro caso. Questo episodio le sarà di aiuto per avere la sua prima parte, da comparsa. Progressivamente la ragazza si fa strada, lavorando al fianco del celeberrimo attore. Poi, improvvisamente, il cinema vive la grande svolta del sonoro e Valentin, con i suoi musical stereotipati, cade in disgrazia. Peppy Miller, invece, si afferma sempre più, sino alla consacrazione a diva hollywoodiana.
Tra i due il rapporto è complesso: prima lei subisce il fascino di lui, come attore di successo e uomo di indiscussa bellezza, poi i due si piacciono sul set, poi lei diventa famosa e un po’ lo dimentica, mentre lui perde notorietà, risparmi, proprietà, moglie e salute, restando solo col suo cane (strepitoso interprete!) e buttandosi sull’alcol. Infine lei tenta di aiutarlo a sua insaputa, dimostrando un sentimento profondo (di riconoscenza, rimpianto, colpevolezza, desiderio) fino al nuovo incontro, a parti ormai inverse. Poco importa: la storia d’amore qui sciorinata alla bell’e meglio è solo delicatamente accennata – ma non per questo banalizzata – e si rivela tutto sommato secondaria rispetto alla grande narrazione metacinematografica e al racconto tutto psicologico delle vicende che interessano l’uomo e la donna, la casualità dei loro successi e fallimenti, il tempo asincrono delle loro esperienze.
Ciò che di questo film deve necessariamente stupire è l’abilità con la quale il rivoluzionario mutamento del mezzo cinematografico che è al centro della narrazione si ripropone con esattezza sullo schermo. Il cinema d’evasione e intrattenimento, fatto di manierismo popolare ed esotismo posticcio, è repentinamente sostituito da un nuovo discorso narrativo, fisico e sonoro. E proprio mentre questo accade, è la drammatizzazione del film stesso a raccontarlo, intensificandosi, acquisendo spessore drammatico e psicologico. Le smorfie e le scenette delle prime sequenze vanno sbiadendo, si abbassa il volume della musica, prende piede insomma una nuova poetica, e lo comprendiamo solo alla fine. La trovata di genio dell’explicit riconsegna alla dimensione comica un film che ha mostrato entrambe le capacità drammaturgiche, in una sintesi armoniosa.
L’ultimo lavoro del regista francese dal cognome lituano ma residente a Hollywood Michel Hazanavicius – purtroppo non molto noto in Italia – è stato dunque accolto dalla critica con entusiasmo sincero e unanime. L’ambiziosa scelta del muto supera, anche grazie alla magistrale fotografia di Guillaume Schiffman, la prova dell’autenticità. Tutto contribuisce alla esatta riproduzione del cinema pre-sonoro in bianco e nero, nel formato, nelle luci, nel gusto, ciascun dettaglio è abilmente curato senza però che si scada mai nell’intellettualismo e soprattutto: ogni cosa ci ricorda che sono le immagini l’essenza del cinema, sono le immagini a costruire il racconto, a veicolarlo e a renderlo bello. E non c’è bisogno di molto altro.
Il tutto è abilmente calibrato in una commistione di parodia e omaggio (si pensi alla scena finale, richiamo esplicito a Ginger Rogers e Fred Astaire) in una sintesi che diverte, commuove e in fondo rassicura: possiamo ancora essere spettatori genuini.
Laura Mancini
Michel Hazanavicius – The Artist
Francia / 2011 / 100’
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