Dialoghi di Estetica. Parola a Sara Enrico
Dopo gli studi in decorazione e restauro di dipinti antichi, Sara Enrico ha proseguito la sua formazione con il Corso Avanzato di Arti Visive della Fondazione Ratti di Como. È una delle due vincitrici del Premio New York 2017-2018 bandito dal Ministero degli Affari Esteri, dall’Istituto Italiano di Cultura a New York e dall’Italian Academy – Columbia University per gli artisti italiani emergenti. Le sue opere sono state esposte in musei, fondazioni e spazi indipendenti. È stata co-fondatrice di Laboratorio del Dubbio (2016) e membro di Progetto Diogene (2008-2012). In questo dialogo abbiamo affrontato insieme a lei tre temi in particolare: i materiali, la forma e il rapporto tra riduzione e complessità.
La tela è un riferimento ricorrente nei tuoi lavori: anziché come supporto, tu la consideri come una materia prima. Questo risalta in alcune tue opere Untitled realizzate tra il 2011 e il 2012 – nelle quali la tela assume, per esempio, le sembianze del recipiente – o in Cactus del 2014, opera in cui il cemento invade lo spazio vuoto dentro una tela arrotolata. Da dove trae origine questo tuo interesse per la tela come materiale originario?
La tela da pittura è un bellissimo materiale! Probabilmente l’esperienza nell’ambito del restauro ha rafforzato una predilezione: l’osservare e utilizzare i materiali, prima ancora di occuparsi della dimensione iconografica dell’opera. Tra gli elementi basilari della pittura ho isolato in maniera più evidente la tela. Spazio della rappresentazione, ma anche intreccio di filato; un tessuto che potrebbe contenere un corpo, conservarne la fisicità e ricordarne la presenza. L’idea di “tessitura”, poiché la considero sia in senso materiale sia figurato, è anche un modo di leggere la superficie e di ragionare sulle sue relazioni rispetto al contesto.
Un modo di lavorare che pare orientato da una tua scelta in particolare: dare importanza prima di tutto alla riduzione dei materiali che usi.
In alcuni casi all’origine di un’opera vi è un’azione molto semplice, un processo diretto, d’istinto, altre volte la questione è meno lineare. Ma il punto è la sintesi, la forzatura di certi limiti, o, per vederla in altro modo, l’individuazione di limiti nascosti nel flusso delle abitudini. Contrarre per espandere.
In che modo?
In ogni lavoro cerco di instaurare una relazione inedita con i processi – dalla produzione industriale a quella artigianale, da una lavorazione manuale a una digitale. Ad esempio, l’incontro della tela con lo scanner è stato fondamentale non solo per il risultato che posso ottenere in termini formali, ma per altre possibilità operative nate da quella combinazione. Talvolta la necessità origina da un personale riappropriarmi di forme archetipiche del costruire che trovano una loro dimensione nell’ambito del design, della moda o dell’architettura, ma anche della storia dell’arte antica. Penso all’affresco come primo passaggio verso l’ibridazione dei linguaggi. Altre volte cerco con le forme astratte un rapporto più emotivo, intimo, e questo sposta lo sguardo verso la dimensione antropomorfa, un’umanizzazione dei volumi e delle superfici.
Quanto conta la forma nei tuoi lavori?
Non è la prima cosa a cui penso, anche se poi ci si arriva – non sempre – e diventa determinante. Seguo una logica deduttiva e quando ottengo un primo risultato riparto da lì per una nuova direzione. La manipolazione come prima forma di conoscenza, dai testi sull’arte preistorica abbiamo appreso che le forme raccolte precedono quelle inventate e che le impronte sono l’“alba delle immagini” e dunque della forma. I primi lavori, la serie degli RSC (2010-2012), nascevano da semplici movimenti di ripiegamento della tela e di pressione su di essa per marcare, stendere e movimentare il colore al suo interno, il titolo era una personale abbreviazione di Rorschach, ma in fondo poteva risultare anche solo un codice, una sigla. I Twins del 2014 hanno spostato tale pratica nello spazio e nella terza dimensione in maniera più corale.
Una tua opera può essere allora considerata come una traccia di questo concatenamento di passaggi?
Ci sono elementi di congiunzione, e forse dei graduali tentativi di individuare un lessico. Tendo però a non considerare l’opera soltanto come una traccia; mi piace osservarne anche l’autonomia, le deviazioni rispetto al mio percorso.
Che cosa intendi con “lessico”?
Mi riferisco ad alcune costanti che ritrovo e seguo nello sviluppo della mia pratica; queste mirano a pattern formali come basi su cui costruire delle varianti. Per molti anni ho studiato pianoforte e con esso lo sviluppo di un repertorio, ritmo e composizione… Per esempio Debussy parlava di una linea melodica perennemente cangiante che doveva superare le regolarità del tema caratterizzante.
Perché questo lessico si possa continuamente arricchire, mi sembra che la tua presenza – intendo il tuo corpo, le tue azioni, i cambi di direzione rispetto al lavoro in corso ecc. – sia imprescindibile.
Lo è sicuramente, e penso sia leggibile nei lavori come autorialità che si esibisce silenziosamente, come assenza significativa. Il modo di osservare che prediligo, ribaltando il discorso sullo sguardo, si basa sulla percezione aptica. Esercitare l’occhio al tatto. È un’attitudine al guardare in modo obliquo le cose, cercare di leggere ciò che sta dietro, quella “presenza”, appunto, non palesemente manifesta. L’agire e l’osservare risultano incontrarsi su questo punto.
Ampliare il lessico significa allora lavorare il più possibile sull’apertura della forma.
Prendiamo un materiale come il cemento. Nel passaggio dal suo stato liquido a quello solido si compie una mutazione che non posso controllare completamente e che mi permette di giocare con alcune sue caratteristiche, anche in maniera espressiva. Il cemento riproduce fedelmente i dettagli, qualsiasi variazione di superficie racconta di un posizionarsi, assestarsi, riempire, fuoriuscire. Si può presentare come grezzo e materico o, al contrario, celare la sua pesantezza sotto l’apparenza di una superficie morbida, levigata come il marmo. Il cemento parla di vuoti, di continuità strutturale, è un materiale che mi piace, è estremamente sincero perché racconta il farsi di quella forma. La verticalità è il limite, proficuo, l’unico modo per usarlo. La cosa si trasferisce al dato visuale, ma essendo sempre presente il rumore di fondo di questa fisicità. Mi piace parlare di una visualità perturbata dalla bassa definizione.
Qual è la tua idea di bassa definizione?
È un’idea del visuale che non vuole nascondere la parte inerte del linguaggio, il suo riverbero materiale. La pellicola sgranata o il pixel visibile, così come il materiale grezzo, o di scarto, impongono una ricezione non lineare, si instaurano relazioni che fondono esperienze culturali e sensoriali anche distanti.
Come le possiamo pensare queste esperienze?
La fluida coesistenza dei processi e il contatto di materiali diversi portano con sé dei discorsi. Il dialogo non è solo tra due materiali ma appunto tra due storie che appartengono a essi e che li caratterizzano. La descrizione diventa allora un metodo attraverso il quale costruire queste esperienze di conoscenza su e attorno all’oggetto che cambia di stato: dallo stato solido, la scultura, a uno puramente narrativo, la conversazione.
La dimensione narrativa nei tuoi lavori però non è legata solo ai possibili accostamenti tra materiali.
No, infatti. La dimensione narrativa passa attraverso tutto ciò che è l’orizzonte culturale di quel materiale, di quel processo e della forma raggiunta nel lavoro singolo e nella concertazione dei lavori in uno spazio. In tal senso mi interessa molto il modo con cui vengono pensate e progettate le scenografie e le coreografie, insieme alla pratica del disegno sartoriale dove la geometria di una forma prende vita attraverso la scelta di un determinato materiale. Gli abiti sono infatti strani oggetti che si animano solo quando vengono indossati. Si instaura una relazione epidermica tra l’interno e l’esterno.
È possibile trovare un equilibrio tra la dimensione epidermica e quella narrativa?
Ti vorrei parlare di RGB (skin) e di come anche il titolo possa accerchiare l’opera mettendo in gioco queste dimensioni. La serie nasce dall’idea di lavorare con delle forme preesistenti, scelte all’interno di un’industria che lavora la gommapiuma per realizzare componenti per la nautica, l’arredamento degli interni, gli attrezzi sportivi. Mi avevano affascinata questi volumi color pastello (la gommapiuma non è solo gialla!), perché presi singolarmente potevano essere guardati secondo significazioni diverse, lontane dalla modularità complementare con cui vengono progettati di solito. Il loro rivestimento è un tessuto tecnico usato per l’abbigliamento sportivo sul quale ho stampato delle texture prodotte scansionando un pezzo di tela da pittura intonso e lavorando digitalmente fino ad ottenere dei colori che sono la diretta conseguenza dell’interazione tra la luce del piano e il bianco della tela. In occasione della mostra da TILE project space a Milano ne ho presentati alcuni insieme ad altri pezzi con i quali ho immaginato una composizione tridimensionale che acquisisse una narrazione anche in rapporto alla connotazione spaziale di quel luogo. Il rivestimento a piastrelle mi ha fatto pensare alla struttura prospettica di stampo rinascimentale e alla funzione “wrap” che si usa per la distorsione di un’immagine digitale. Una base per queste sculture che avrebbero assunto delle posture, come in una partitura coreografica, e da lì il titolo della mostra: à terre, en l’air.
Dall’essenziale alla complessità. Anche la tua opera The Jumpsuit Theme, entrata a far parte della collezione permanente del PAV ‒ Parco Arte Vivente di Torino, segue questa traiettoria poetica?
The Jumpsuit Theme è un ritratto collettivo e il corpo è un soggetto implicito. Ho immaginato le sue posture, gli snodi e le tensioni applicandoli a un rudimentale abito in tessuto, utilizzato come cassaforma-contenitore. L’inerte cementizio, colato all’interno, ha generato la sensazione di una vitalità latente assegnando forma e peso a quel che sarebbe un corpo che cerca appoggi, posizioni, si allunga o si ripiega nello spazio. Pensando a come dar forma a questi movimenti sono arrivata all’idea della tuta, dell’abito universale che condensa riferimenti molto distanti tra loro. Questa tipologia d’abito è infatti legata all’utopia politica, allo sport, ma anche, più banalmente, alla vita domestica. La tuta per stare comodi nel nostro spazio di intimità. TJT sono forme alla ricerca di un equilibrio, di una collocazione reciproca e nello spazio, e richiamano pose forse buffe, quelle di una gestualità goffa, animata da precario equilibrio. Anche l’ambientazione pesa fortemente sulla percezione ed è parte della complessità. Nel considerare un luogo all’interno del parco, ho pensato alle linee architettoniche che lo definiscono, ai pieni e ai vuoti, al ritmo naturale e a quello artificiale. Il declivio naturale di una delle colline del parco è una zona intermedia. Proprio per questo tende a rendere dinamica la percezione di un oggetto in essa collocato, generando quella che io sento come una “traiettoria felice”.
‒ Davide Dal Sasso
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