Gli orrori d’Europa. Milo Rau porta a teatro l’indicibile
Perturbante e lucido, lo spettacolo “Five Easy Pieces “di Milo Rau mette in scena uno dei crimini più efferati della storia recente. Evocando le vittime di Marc Dutroux, il Mostro di Marcinelle.
Recentemente candidato ai Premi Ubu come migliore opera straniera rappresentata in Italia, Five Easy Pieces del regista Milo Rau, visto nell’interessante stagione della Triennale di Milano e poi approdato a Cagliari all’interno della programmazione coraggiosa di Sardegna Teatro, emerge come uno degli spettacoli più perturbanti degli ultimi anni.
Il lavoro evoca la storia criminale di Marc Dutroux, meglio conosciuto come il Mostro di Marcinelle, dramma di dimensione nazionale che negli Anni Novanta colpì le Fiandre e, per estensione, il cuore dell’Europa.
Milo Rau apre il cassetto dei ricordi più oscuri del regno belga, mettendo in scena l’indicibile: l’orrore del sequestro di sei bambini, le violenze e l’eccidio di quattro di loro.
Accosta il crimine a un’altra grande macchia della storia belga, il colonialismo in Congo, profondamente legato alla biografia di Marc Dutroux, vissuto nei primi anni della sua vita in Africa, figlio di quell’esperienza. Entrambi gli episodi, per la loro efferatezza, rappresentano un orrore nazionale e pongono di fronte a un mistero, nel senso etimologico del termine (dal greco muw = chiudere), qualcosa che chiude la bocca, che serra le labbra, e ci interroga sul passato recente dell’Europa e sulla definizione di umano.
Quasi un ossimoro quello che propone al pubblico il regista svizzero che, con un atto di raggelata precisione, chiede di osservare il dramma di Marcinelle attraverso una lente clinica e chirurgica, la costruzione di un set dove l’infanticidio e la pedofilia sono rievocati sulla scena da un gruppo di bambini dagli 8 ai 12 anni.
Investendo i giovani protagonisti di un compito complesso, Milo Rau perpetra per tutta la durata del lavoro un corto circuito cognitivo: attraverso il ribaltamento radicale dei piani della rappresentazione, l’oggetto del dramma diventa soggetto, la vittima il carnefice, l’attore il regista.
Five Easy Pieces – Milo Rau / IIPM / CAMPO from CAMPO on Vimeo.
PAROLA A HENDRIK VAN DOORN
Incontrato a Cagliari, Hendrik Van Doorn, membro del cast, ci ha raccontato la genesi dell’opera.
“Campo, centro d’arte visuale e performativa con sede a Ghent, propose a Milo Rau e al suo International Institute of Political Murder la produzione di una pièce con i bambini destinata a un pubblico adulto. A quel tempo il regista era impegnato a Bruxelles su un’altra creazione e domandò alle persone che stavano lavorando con lui quando si fossero sentiti veramente belgi. La risposta fu unanime: nel momento della Marcia Bianca, una marcia silenziosa con migliaia di persone che esprimevano la loro solidarietà verso le vittime del mostro di Marcinelle ma anche un’azione di sdegno e protesta contro il sistema giuridico, lo stato, la politica, la polizia. Questa immagine s’impose in modo radicale non tanto per la figura di Dutroux quanto per il valore di dramma e tragedia nazionale. Tragedia nazionale a cui contribuiva il passato coloniale del padre di Marc Dutroux e, per estensione, il colonialismo che oggi rappresenta un grave dramma e una macchia indicibile nella storia belga”.
La piéce ha una struttura protetta seppur raggelante.
“Milo Rau voleva mostrare la manipolazione del regista sulla scena, evidenziare il processo di lavoro” – continua Van Doorn ‒ “desiderava evidenziare il legame tra il ruolo del regista e il personaggio di Marc Dutroux in termini di abuso e manipolazione. La manipolazione è un aspetto perverso della regia. Dirigere è un atto di potere, particolarmente evidente quando si lavora con i bambini. Evoca una forte analogia con l’atto criminale sessuale che è un fortissimo atto di potere. Seppur in altra forma, anche chiedere a una bambina di togliersi i vestiti sul palco lo è. La protezione rappresenta solo un aspetto diverso, complementare della manipolazione”.
Five Easy Pieces (titolo ispirato all’omonima composizione di Igor Stravinskij, concepita come strumento educativo per insegnare il pianoforte ai più piccoli) è un lavoro composto da cinque quadri, limpidi, formali, articolati attraverso un’interessante operazione di scrittura.
Il regista svizzero realizza un dispositivo drammaturgico nei diversi episodi incentrati sui protagonisti del racconto (il padre ottantenne, i genitori della vittima, il poliziotto, la vittima, il re), invitandoci in un percorso stratificato attraverso i piani della rappresentazione.
LO SPETTACOLO
L’opera inizia con il casting dei giovani attori. Una figura adulta sul palco veste i panni del regista, li conduce, li interroga, li registra, proietta macroscopicamente i loro volti sul fondale. Provini, interviste, dialoghi sul senso del teatro, della morte, sul significato di essere in scena penetrano la narrazione, interrompendo il flusso degli eventi e le ricostruzioni del crimine.
Questo entrare e uscire, attraverso una struttura metateatrale, dal piano di “realtà” verso diversi livelli di finzione permette ai bambini e al pubblico di accedere sottilmente al mondo dell’irraccontabile.
“Normalmente, quando si mettono in scena i bambini, la nostra attenzione è su quanto sono graziosi, creativi, innocenti, originali, ma Milo voleva mostrare esattamente l’opposto: averli sul palco è un lavoro che ha bisogno di strumenti molto rigidi; un adulto che li manipoli, che li guidi non tanto in un processo creativo, quanto in un percorso di imitazione”, sottolinea Van Doorn.
L’uso della telecamera, come in un set cinematografico, e la proiezione delle azioni sul fondale permettono di amplificare l’immagine e sfondare la cortina del palcoscenico e di riflettere sulla rappresentazione mediatica, politica del dramma raccontato.
La complessità del meccanismo drammaturgico consegna una distanza da una facile emotività, circoscrivendo la scena con contegno, pudore, delicatezza. Marc Dutroux, l’assassino, infatti, non appare mai: resta sullo sfondo. Il crimine non è mai agito, ma solo raccontato, rappresentato attraverso la ricostruzione della polizia, le testimonianze del padre e quelle dei genitori delle vittime, attraverso le lettere lette dal lettino della cella, che raccontano, con dovizia di dettagli, la violenza e l’atroce sogno del mostro di Marcinelle di costruire una città sotterranea senza luce, capace di accogliere tutti i bambini nel suo oscuro mondo.
I LATI DEL DRAMMA
L’impianto permette di accogliere, invece, i lati del dramma, e sedimenta, stratifica, quadro dopo quadro, il peso politico che ha reso il tragico episodio ancora più inaccettabile, deflagrando ed evidenziando così il disimpegno della polizia, il silenzio del re, la totale assenza istituzionale.
La persistenza della presenza dell’infanzia in scena incide e solca ogni secondo, inchiodando lo spettatore nel cuore del dramma e legandolo in una relazione voyeuristica con la fanciullezza e la sua rappresentazione, tanto più evidente quanto più l’efferatezza del crimine contrasta con l’immagine della sua purezza.
Tale voyeurismo permette di riflettere sull’atto stesso del guardare e rivela il disagio di un’intera cultura di fronte alla propria storia politica, messa a nudo, con un’angolazione visuale che attraversa il Novecento e giunge sino all’oggi, orientandoci e disorientandoci nella contemporaneità.
Milo Rau scava nelle stesse fosse in cui Marc Dutroux aveva sepolto le sue vittime, vive, dichiarando di non averle uccise, richiamandoci sul senso di responsabilità nell’atto di vedere e di conoscere, sollecitando chi guarda verso un’assunzione del passato e delle conseguenze che la storia europea, in termini di dominazioni e di esercizio del potere e della “democrazia”, ha determinato.
Il regista ci accompagna in questa visione con grande eleganza, con uno sguardo quasi etnografico che ci spoglia e disarma con un’angelica e raggelata crudeltà, di cui il teatro contemporaneo dovrebbe essere più abitato.
‒ Maria Paola Zedda
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati