Gino Rossi a Venezia. Dialogo tra le collezioni di Fondazione Cariverona e Ca’ Pesaro
Una mostra dedicata a Gino Rossi, artista tra i più interessanti dell’avanguardia veneziana che proprio a Ca’ Pesaro ha trovato il suo centro nei primi anni del ‘900.
Comunicato stampa
Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna ospiterà dal 23 febbraio al 20 maggio 2018 una mostra dedicata a Gino Rossi, artista tra i più interessanti dell’avanguardia veneziana che proprio a Ca’ Pesaro ha trovato il suo centro nei primi anni del ‘900.
Curata da Luca Massimo Barbero ed Elisabetta Barisoni, Gino Rossi a Venezia vuole restituire la forza e l’ampiezza dell’innovazione nata e cresciuta a Ca’ Pesaro dal 1908 fino ai primi anni venti, attraverso lo sguardo di uno dei suoi protagonisti. La mostra si inserisce all’interno di un rinnovato interesse per la figura di questo artista, a 70 anni dalla sua scomparsa.
Il percorso esporrà alcuni capolavori di Gino Rossi, realizzati nel corso di una carriera artistica breve eppure intensissima: alle opere di Ca’ Pesaro si affiancherà il nucleo di significativi lavori raccolti e conservati nella collezione di Fondazione Cariverona.
Il percorso espositivo sarà arricchito da un catalogo edito da Marsilio con i testi dei curatori, a cui si affiancheranno le schede delle opere e un saggio di Nico Stringa, che a Gino Rossi ha dedicato una lunga e approfondita ricerca filologica e storica. La parabola artistica di Gino Rossi (Venezia, 1884 – Treviso, 1947) è ricca di stimoli anche se molto circoscritta nel tempo.
Sin. Gino Rossi. Bruto (1913). Olio su cartone applicato su tela. Archivio Fotografico Fondazione Cariverona - Saccomani, Verona.
Des. Gino Rossi. Maternità (1913). Olio su cartone. Archivio Fotografico Fondazione Musei Civici di Venezia.
Nato a Venezia da una famiglia benestante, dopo gli studi a Fiesole e Venezia, si reca a Parigi nel 1907 insieme all’amico e collega Arturo Martini. Lì entra in contatto con alcune delle più importanti esperienze artistiche del tempo, che contribuiscono a formare la sua poetica con sguardo internazionale e cosmopolita.
Il periodo parigino – a cui si alternano frequenti soggiorni in Bretagna – gli permette la frequentazione assidua di un milieu artistico e culturale da cui prenderà ispirazione per la sua produzione: entrare in contatto con la poetica cubista e con i Fauve fa sì che, al rientro in Italia, Rossi sia uno tra gli artisti più aggiornati del suo tempo.
Il ritorno a Venezia avviene in un periodo in cui Nino Barbantini, appena diventato, a soli 23 anni, direttore della Galleria d’Arte Moderna e al contempo Segretario della neonata Opera Bevilacqua La Masa, comincia a promuovere la sede di Ca’ Pesaro come un luogo aperto alle tendenze più recenti dell’arte italiana, secondo una visione antiaccademica e antitetica alle prime edizioni dell’Esposizione Internazionale d’arte ai Giardini.
Fin dalla prima mostra Bevilacqua La Masa a Ca’ Pesaro, nel 1908, risulta evidente quanto l’arte moderna italiana sia davvero nata a Ca’ Pesaro, o quanto meno ne abbia avuto piena espressione in un momento in cui doveva ancora svilupparsi, a livello nazionale, una più articolata rete dedicata alle nuove tendenze.
Tra i primi partecipanti alle mostre capesarine vi sono artisti come Felice Casorati, Umberto Boccioni, Pio Semeghini, Arturo Martini cui si aggiunge, nel 1910, anche Gino Rossi. Attraverso i suoi potenti ritratti degli ultimi e dei reietti, o con la sublimazione del colore nei paesaggi onirici della laguna veneta, Rossi emerge ben presto per il suo violento e irreversibile abbandono dell’accademismo e il ritorno ad un’espressività originaria, quasi arcaica.
La forma è per lui elemento “antigrazioso”, lontano dalla leziosità di tanta arte dei primi anni del ‘900, in aperta contrapposizione con l’estetica decadente di molti suoi contemporanei. Sono gli anni in cui l’isola di Burano diventa per Rossi la sua Bretagna, luogo ideale ma assolutamente non idilliaco dove passa lunghi soggiorni e dove si trasferisce anche a vivere, nel disagio e nella scomodità più assoluta.
Gino Rossi. Douarnenez (1912). Olio su tela. Archivio Fotografico Fondazione Musei Civici di Venezia.
La ritrattistica si concentra sugli umili, sugli individui ai margini della società. Rossi sceglie come protagonisti i pescatori o le loro mogli, cogliendo con pennellata energica e materica lo spirito di ogni figura ed esasperandone i tratti più duri, imperfetti ed esteticamente spiacevoli. Tra i ritratti che saranno esposti a Ca’ Pesaro troviamo Bruto (1913) uno dei migliori esempi dell’attenzione dell’artista verso i poveri e gli emarginati. Le pennellate forti scavano i tratti del volto, esaltando i segni di una vita difficile resa in tutta la sua crudezza. Questo ritratto è messo a confronto con la scultura Buffone (1913-14) di Arturo Martini: un grande busto in gesso dipinto che esplicita, in un gioco di rimandi estetici, la grande affinità tra questi due artisti e le similitudini nelle loro ricerche.
Allo stesso modo, le figure femminili si discostano dai ritratti di aristocratiche e borghesi, comuni a larga parte della produzione di quegli anni: le donne di Rossi sono popolane, spesso madri, spesso vestite di scuro e con abiti semplici, distanti anni luce dalle donne sofisticate fin de siècle.
In Ritratto di Signora (1914) e Maternità (1913) il contesto è inesistente, così come la decorazione, in totale contrapposizione con la grande tela di Felice Casorati Le Signorine (1912) che le affianca e che invece racconta di giovani figlie della borghesia, riprese in un luogo ricco di simboli e riferimenti alla loro vita e alla loro condizione sociale. In Rossi si percepisce un’impronta espressionista, che abbandona la piacevolezza estetica concentrandosi sulla crudezza. La sua ritrattistica è, a tutti gli effetti, la risposta polemica al decadentismo floreale che troverà la sua conclusione solo con la Prima Guerra Mondiale.
Anche i paesaggi sono improntati ad un forte espressionismo, e risultano fortemente influenzati dai primi soggiorni in Bretagna: Douarnenez (1912) e Paesaggio nordico (1911) risalgono proprio a quel periodo e segnano l’inizio di un approccio che lo porterà ad un nuovo vedutismo, ancora una volta in contrapposizione con le esperienze artistiche contemporanee. Il soggetto prediletto, così come per molti suoi colleghi capesarini, è l’isola di Burano: lontana dal fasto decadente del centro storico, la piccola isola è un rifugio e un’inesauribile fonte di ispirazione. Barene a Burano (1912-13), insieme ad altri due paesaggi buranesi degli stessi anni, presenteranno al pubblico della mostra lo sguardo di Gino Rossi su questo ambiente primitivo ed ancestrale in cui uomo e natura si integrano in un legame indissolubile. A queste saranno affiancate le significative prove di alcune “sentinelle avanzate” del paesaggio moderno, cresciute sempre in ambito capesarino, come Pio Semeghini e Umberto Moggioli.
Nelle opere degli anni dieci, il colore assume per Rossi un significato profondo che non si limita alla sola trasposizione della realtà: i blu, i verdi, i toni caldi dei suoi paesaggi sono in netto contrasto con i toni scuri dei ritratti. Il non-finito diventa mezzo di espressione costante e permette ai vuoti e ai pieni di bilanciarsi, lasciando quel senso di precarietà e di sospensione, tipico dei grandi artisti nella fase più matura.
L’esperienza della Prima Guerra Mondiale segna per sempre Gino Rossi e tutta l’avanguardia artistica italiana: i lavori dopo il 1918 sono più articolati e strutturati, incentrati su forme e volumi che riprendono la lezione di Cézanne. In occasione di Gino Rossi a Venezia verranno esposti diversi studi su carta e linoleumgrafie che segnano un avvicinamento allo studio della composizione: in particolare in Studio per natura morta con violino e pipa (1922), un disegno a gessetti colorati, il soggetto si discosta da quelli trattati prima della guerra ma mantiene il tratto forte e sicuro. Poemetto della sera (1923), infine, conclude il percorso ideale tra i capolavori in mostra: una scena bucolica con animali al chiaro di luna, un senso di quiete precaria in cui il colore si fa più rarefatto e le forme diventano schematiche e archetipiche.
Nel 1926 dopo solo 20 anni di produzione, Gino Rossi viene internato nel manicomio di Sant’Artemio a Treviso: non dipingerà mai più e morirà nel 1947, lasciando una grande incognita su come la sua ricerca artistica avrebbe potuto proseguire.