Arte classica e fotografia moderna
La Pietà di Michelangelo e le fotografie dei reporter nelle zone di guerra. L’iconografia, la religione e l’attualità. Una riflessione di Giovanni Lista che prende l’avvio da un altro editoriale uscito sempre su queste pagine, “La freccia e il presagio” di Gian Maria Tosatti. Con un appello finale.
Un paio di settimane fa, l’articolo pieno di passione di Gian Maria Tosatti, intitolato La freccia e il presagio, evocava “la fine del capitalismo” parlando delle manifestazioni degli indignados a New York. Personalmente, credo che qualsiasi discorso del genere sia privo di validità se non ha il coraggio di parlare della politica rapace di Israele che è la metafora concreta del capitalismo che ha ormai trionfato negli Usa e in Europa. L’altro capitalismo, nato dai Monti di Pietà della cultura francescana e capace di integrare i valori dell’umanismo, è stato sconfitto.
Tenendo oggi in scacco, alla faccia del mondo, tutti i valori sorti non solo dalla religione cristiana ma anche dalla filosofia dei Lumi, Israele è il modello stesso del capitalismo inumano di cui parla Tosatti. È ciò che l’autorizza e ciò che lo legittima. Nel testo originale del libro Indignez-vous! (2010) di Stéphane Hessel, il diplomatico ebreo francese che è stato all’origine del movimento internazionale degli indignados, il riferimento alla politica israeliana era esplicito, prima di essere eliminato nella seconda edizione a causa delle enormi pressioni delle lobby politiche che ha ricevuto. Detto altrimenti, i capolavori dell’arte classica, o anche La liberté guidant le peuple di Delacroix, sono immagini che ci provengono da un mondo in cui i valori della religione cristiana e della filosofia dei Lumi erano ancora vivi. Nessuna analisi politica può apparire credibile se non tiene conto di questa verità. Evocare quindi “la fine del capitalismo” non significa nient’altro, in sostanza, che auspicare un ritorno a quei valori su cui si è costruita la civiltà occidentale.
Il dibattito sull’attualità politica e le icone del pathos umano inscenato dall’arte classica è ormai di moda da qualche anno. In questi giorni è uscito in Francia il saggio La Madone de Bentalha: une photo qui devient un objet d’histoire di Juliette Hanrot. Viene chiamata così la fotografia straordinaria scattata nella periferia di Algeri, il 23 settembre 1997, dal fotografo Zaouar Hocine della A.F.P. Il giorno precedente c’era stato un massacro a sud di Algeri, a Bentalha, e più di duecento corpi di vittime sgozzate erano stati portati all’ospedale Zmirli. Recandosi sul posto, il fotografo coglie lo strazio di questa donna che ha appena riconosciuto i suoi tra i cadaveri. Lo scatto avviene alle 12.30 e il giorno stesso l’Agence France Presse lo invia ai giornali. La fotografia è un’icona talmente suggestiva che appare la mattina dopo in prima pagina su più di 750 testate attraverso il mondo. Alcuni la battezzano La Madonna di Bentahla perché ricorda le più celebri immagini cristiane dell’arte rinascimentale italiana.
La fotografia riceve il World Press Photo nel 1998, ma il critico e storico d’arte Georges Didi-Huberman apre il dibattito chiedendosi se, nell’attribuire questo titolo all’immagine, l’Occidente non fa che “colonizzare” il dolore di questa madre musulmana. La donna fotografata, di nome Oum Saâd, che è allora intervistata dalla televisione di Algeri, dichiara che in quanto musulmana non voleva essere fotografata, cioè apparire su un’immagine. Indirettamente, pone quindi il tema dell’antropologia religiosa, la possibilità di rappresentare la figura umana che è appunto un tratto specifico della religione cristiana. Nel 2002, l’artista francese Pascal Couvert trae una scultura in cera dalla fotografia, trattandola in bicromia e senza i volti delle due donne. L’opera è oggi conservata al Musée d’Art Moderne del Lussemburgo. Pascal Couvert organizza anche mostre e gira un documentario interrogando esperti, critici d’arte e giornalisti.
Il libro ora pubblicato da Juliette Hanrot ritraccia la favolosa storia di questa icona fotografica pur ignorando molta documentazione, tra cui un nutrito articolo di Cathérine Millet che, su Art Press, evocava anche lei indistintamente l’arte rinascimentale italiana, o altri articoli che citavano invece l’analisi dell’iconicità della fotografia del cadavere di Che Guevara, vera e propria immagine del Cristo morto, pubblicata da Susan Sontag. Il saggio di Juliette Hanrot ignora soprattutto il mio articolo L’art et la figure humaine uscito sulla rivista Ligeia (n. 73-76, gennaio-giugno 2007). Dico soprattutto per il semplice motivo che ero stato l’unico a riuscire a identificare quale icona dell’arte religiosa italiana appare in filigrana nella fotografia della Madone de Bentalha. Si tratta di un particolare della scena della crocefissione affrescata da Giotto alla Cappella degli Scrovegni di Padova in cui la Madonna dolente sembra accasciarsi sorretta dalle Sante Donne. Ed è proprio con Giotto, con la sua drammaturgia dei gesti e degli sguardi, che l’arte occidentale ha introdotto il pathos dell’uomo nella pittura, restituendo così una visione umanista del dolore nella rappresentazione della figura umana.
L’attualità di questo parallelo iconografico che corre tra le immagini umaniste dell’arte religiosa d’epoca rinascimentale e i reportage fotografici delle scene di dolore prodotte dall’inumanità del mondo contemporaneo non si ferma qui. Venti giorni fa, il 10 febbraio, il World Press Photo è stato attribuito a un cliché scattato dal fotografo egiziano Samuel Aranda del New York Times, un’immagine che è stata ribattezzata La Pietà islamica solo perché ricorda la celebre scultura detta Pietà vaticana di Michelangelo. Lo scatto ritrae una donna yemenita seduta e velata da un niqab nero che tiene tra le braccia un uomo seminudo e visibilmente ferito. Le polemiche infuriano di nuovo. Il giornalista tedesco Jörg M. Colbert insorge scrivendo che il titolo attribuito all’immagine riflette uno sguardo tipicamente occidentale: “Fin dove possiamo utilizzare una fotografia per illustrare il nostro sistema di credenze religiose?”. Su Le Monde, Claire Talon cita le reazioni contrastate del mondo arabo. Il giornalista Patrick Baz ricorda invece a ragione che il riferimento visivo è scontato poiché né il mondo musulmano né l’islam sunnita possiedono la tradizione di una cultura di rappresentazione della figura umana.
Immancabile, almeno da vent’anni a questa parte ogni volta che si parla della Pietà vaticana in Francia, c’è stato anche chi ha ricordato il preteso contributo francese all’opera di Michelangelo. Si è sempre detto che la posizione scelta da Michelangelo, da cui risulta il famoso schema piramidale della scultura, è una novità assoluta nell’arte occidentale. Fino a che la storiografia francese, sempre sofferente di sciovinismo nei confronti del primato dell’arte classica italiana, non ha tirato fuori che c’è un precedente nelle sculture votive popolari bretoni. Effettivamente in Bretagna, nelle vecchie chiese e lungo i cammini di campagna, ci sono antiche sculture votive che hanno la posizione della Pietà e che costituiscono una tipica tradizione locale. Cosa c’entra con il divino Michelangelo? La storiografia francese ricorda che l’opera fu commissionata al giovane Michelangelo dal cardinale Jean de Bilhères de Lagraulas, ambasciatore francese presso la Santa Sede, per la Cappella Santa Petronilla del Re dei Francesi in San Pietro. Da cui l’ipotesi, subito tradotta in certezza dalla storiografia francese, che fu il cardinale francese a dirgli quale doveva essere la posizione della statua.
Ma in realtà questa volta il riferimento visivo può portarsi molto più indietro, ben al di là della Pietà vaticana di Michelangelo. Nell’articolo pubblicato nel 2007, citato sopra, ricordavo che forse il primo esempio in assoluto di un’icona della Pietà è la scultura arcaica in bronzo La Madre della vittima, detta anche La Pietà d’Urzuleï, conservata al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari. L’opera, in cui una madre tiene in grembo un soldato ancora armato che ha gli occhi chiusi dalla morte, risale al VIII-V secolo a.C., cioè a ben prima che nascesse la religione cristiana. Questo non vuol dire che quelli che polemizzano sul premio accordato al fotografo del New York Times sbagliano completamente. Le civiltà che si sono succedute sulle rive del Mediterraneo hanno trovato in Roma una sintesi ineguagliabile. La pietas latina, cioè “una fedeltà e un amore profondo che né vita né morte possono distruggere”, era la virtù di Enea, l’eroe positivo che Virgilio pose al centro della mitologia romana. La religione cristiana ha poi tradotto il concetto latino nel significato di una sottomissione di tutta l’anima alla volontà di Dio, ma nello stesso tempo, integrando l’umanismo rinascimentale, ha trasformato questa cultura in una grande tradizione iconografica capace di tradurre gli affetti dell’uomo, facendone un molteplice teatro di figure umanistiche dal valore paradigmatico universale. Come afferma Julia Kristeva, la pittura del Rinascimento italiano rappresenta un apice unico nella storia dell’umanità, probabilmente destinato a non ripetersi mai più.
Questa riflessione sui rapporti tra l’iconografia dell’arte classica e le immagini documentarie dell’attualità politica non è del tutto nuova. Vorrei appunto chiudere con un ricordo di gioventù. Intorno al 1973 mi accadde di visionare alla televisione italiana un film in bianco e nero sul restauro della Pietà vaticana di Michelangelo che era stata sfregiata dalle martellate di un pazzo. Ricordo in particolare la grande concentrazione dei tecnici dei Musei Vaticani mentre aprivano con un trapano elettrico i fori nelle esili dita della Madonna per introdurvi le anime di metallo su cui inserire i frammenti di marmo. Poi, a restauro ultimato, il regista faceva un piano d’insieme della statua prima di sovrapporvi, con un passaggio in dissolvenza, una fotografia scattata durante la guerra del Vietnam che mostrava una madre e un figlio nella stessa posizione. Seguiva poi un accumulo rapido e lirico di immagini simili, tutte impaginate in dissolvenza, che mostravano sempre questo gesto estremo di una madre capace di cullare il cadavere del figlio, sullo sfondo di guerre, rivoluzioni, catastrofi civili. L’impatto emotivo era talmente forte che fu la prima volta in cui mi capitò di avere le lacrime agli occhi svolgendo il mio lavoro di storico d’arte. Non ricordo nessun dato tecnico del film, né il nome del regista né la casa di produzione. In anni recenti, ho scritto più volte agli archivi della Rai ma non ho mai ricevuto una risposta. C’è qualcuno, tra i lettori di Artribune, che può aiutarmi a ritrovare questo film?
Giovanni Lista
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