Dopo l’intervista a Silvio Salvo e Nancy Proctor, che trovate anche sul nostro sito. Ora è la volta di Chiara Bernasconi, in forza al MoMA di New York da ben nove anni.
Quanto conta la comunicazione digitale e lo sviluppo sul digitale in un museo?
E al MoMA in particolare?
La comunicazione e lo sviluppo digitale in un museo contano moltissimo, prima di tutto perché non si può prescindere dalle abitudini del pubblico, che sempre di più utilizza dispositivi mobili e tecnologie per capire il mondo. C’è un articolo interessante di qualche anno fa dove si cita Paola Antonelli e sono completamente d’accordo con lei quando dice: “Non viviamo nel digitale né nel fisico, ma in una specie di minestrone delle due dimensioni che fa la nostra mente. I musei hanno un ruolo importante nell’aiutare le persone a esplorare e comprendere la cultura ibrida emergente”. Una delle sfide più grandi per i musei oggi è la capacità di rafforzare e unire l’aspetto online e quello offline, di mediare in questa cultura ibrida fra realtà virtuale e fisica. Un piano strategico di un museo oggi non può esistere senza una strategia digitale. Alcuni colleghi del settore avanzano l’ipotesi che sia possibile tra qualche anno non dover aggiungere l’aggettivo ‘digitale’ a titoli di staff o a una strategia del museo, ma ci ricordano che per ora dobbiamo ancora fare riferimento a una separata strategia digitale, per essere certi che venga considerata! In ogni caso, siamo già su una traiettoria dove l’aspetto digitale fa sempre più parte integrante di tutto quello che il museo è e fa ogni giorno.
Quanto la digitalizzazione delle risorse e dei processi influisce sulla efficacia della comunicazione sui social?
La digitalizzazione dei contenuti, delle risorse e dei processi è fondamentale e deve essere alla base di ogni sforzo e operazione sui social, che altrimenti rimangono fine a se stessi e permettono solo una comunicazione superficiale. Naturalmente tutto deve essere fatto in base alle proprie dimensioni e risorse, quindi con lanci in diverse fasi. Non ci si aspetta di avere tutta la collezione online, ci vogliono anni per cambiare le cose, ma bisogna cominciare da qualche parte, mettere in atto un processo e proseguire con costanza.
Per un museo come il MoMA cosa significa svolgere un’attività “relevant”?
Significa creare una programmazione con un approccio user-centric sia nelle gallerie sia online. Significa saper attrarre un pubblico il più ampio possibile (è scritto nella nostra missione!), che continuamente cambia e non necessariamente è interessato solo ad arte moderna e contemporanea, che ha diversi gradi di conoscenza dell’arte, locale e internazionale, che a volte non parla l’inglese, che è giovane o anziano.
Che competenze deve avere chi si occupa di comunicazione social in un museo? E quali soft skill? Si può fare su mandato, semplicemente seguendo delle regole?
La conoscenza e la passione per i contenuti del museo a mio parere è fondamentale. Non si può improvvisare, semplicemente seguendo delle regole, per quanto anche queste siano necessarie e debbano essere comunicate in modo trasparente e condivise. La voce digitale deve essere personale, unica; deve avere uno stile forte, ovviamente consono allo spirito del museo. Deve avere la fiducia dei curatori, degli educatori, deve tradurre il loro linguaggio per renderlo accessibile a tutti. È fondamentale che chi si occupa di comunicazione social sia prima di tutto un “traduttore”, un ponte tra diversi linguaggi e diversi pubblici.
È un profilo con competenze richieste di tipo “tecnico”?
Non necessariamente deve avere skill tecniche: sono molto più importanti la capacità di collaborare a ogni livello, saper essere cross-departmental e cogliere – anche tra le righe – la visione strategica dell’istituzione per cui si lavora, e avere un’ottica di lungo periodo delle tendenze e del panorama artistico e culturale. Più di ogni cosa, chi si occupa di social media deve essere un abile storyteller e deve coltivare connessioni interne al museo ed esterne con altri musei e istituzioni locali e internazionali.
“Spero che tra un po’ il termine ‘digitale’ sarà obsoleto e non dovremmo passare così tanto tempo a giustificare perché è importante. Così potremmo concentrarci sulla creazione e pianificazione di contenuti e programmi digitali”.
Online e offline sono due mondi o uno solo?
La ricerca della perfetta integrazione tra questi due mondi è ancora un’utopia. Quelli che chiamiamo “the moments of truth” nel percorso del visitatore sia online che offline rimangono ancora poco analizzati ed esplorati, un po’ per mancanza di competenze, un po’ per mancanza di risorse e staff dedicato. Comunque siamo in buona compagnia, è una delle sfide più grandi anche per il settore for profit. Chi saprà rendere questa integrazione il più coordinata possibile sopravvivrà. Al MoMA ci stiamo lavorando, anche se per ora ci pensiamo sempre quando siamo nel bel mezzo della programmazione e non a priori…
Quando i processi di integrazione delle figure potranno dirsi conclusi, avrà senso avere ancora il suffisso ‘digital’?
Non credo ci sarà mai completa integrazione, e forse questo è naturale, forse non è nemmeno importante, però spero anch’io che tra un po’ il termine ‘digitale’ sarà obsoleto e non dovremmo passare così tanto tempo a giustificare perché è importante e potremmo concentrarci invece sulla creazione e pianificazione di contenuti e programmi digitali. Un altro aspetto che vorrei sottolineare è che non tutte le attività di un museo devono necessariamente includere un aspetto digitale: solo se ha senso!
In che misura il museo ha un ruolo anche politico? Il MoMA si è schierato contro il ban di Trump…
Credo che ogni museo abbia sempre un ruolo politico, è inerente al suo ruolo chiave per la conservazione e diffusione di arte e conoscenza, di istituzione che ci apre gli occhi a diverse specifiche culture e diversi punti di vista. Ogni decisione curatoriale è di per sé politica: si tratta di scegliere di mettere in luce opere o pratiche artistiche che hanno una particolare rilevanza in un preciso momento storico.
In vari momenti storici, esponenti della cultura hanno preso posizioni più o meno chiare. Ovviamente la situazione è complessa, perché le istituzioni ospitano voci differenziate al loro interno. In ogni caso, credo che ogni museo abbia il dovere e la responsabilità, come luogo pubblico rivolto all’apertura e all’educazione, di comunicare il proprio dissenso verso scelte o posizioni politiche ingiuste. Un gruppo di curatori al MoMA ha sentito il bisogno di esprimere la propria posizione nei confronti di un’operazione politica razzista, attraverso una chiara dimostrazione delle pericolose conseguenze che queste prese di posizione possono avere anche nel mondo dell’arte.
Torniamo a te. “I went to MoMA and…”?
… non avrei mai pensato di restare nello stesso luogo di lavoro per nove anni! Al MoMA però succede questo e altro, ed è grazie a colleghi straordinari, professionali, stimolanti, pronti a mettersi in gioco, a sperimentare e a imparare dagli altri. Mi auguro che sempre più i luoghi della cultura e le istituzioni possano coltivare questo tipo di ambiente di sperimentazione e crescita.
In ultimo: un libro da consigliare ai colleghi italiani.
Il testo di Nina Simon, The Participatory Museum, ha avuto una grande influenza su tutti i professionisti dei musei negli ultimi anni. È un progetto generoso e utile per mettere in discussione le gerarchie e i processi e ripensare a nuovi modi di collaborare e di programmare nei musei.
‒ Maria Elena Colombo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #39
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