Creatività, contaminazione e coinvolgimento. L’editoriale di Fabio Viola
Il game producer Fabio Viola analizza il panorama culturale odierno. Sottolineando la necessità, da parte delle istituzioni, di andare incontro alle mutate esigenze del pubblico. Senza demonizzare social network e affini.
Mai come oggi, il nostro futuro è nelle mani di coloro i quali possono immaginarlo, disegnarlo ed eseguirlo. Da secoli tenuti ai margini delle politiche pubbliche e private, i creativi rappresentano il punto di partenza per riscrivere le strutture sociali e ripensare i processi economici e culturali del nostro mondo. Secoli di appiattimento intorno alla rivoluzione industriale hanno favorito l’emergere della standardizzazione di prodotti con il risultato ultimo di non incentivare l’unicità, la capacità di pensare fuori dagli schemi e in generale ogni istanza al di fuori di un ciclo stabilito di produzione.
Oggi, e ancor più pensando al futuro prossimo, è palese il corto circuito in atto tra queste sovrastrutture e i comportamenti delle nuove generazioni. Ogni 60 secondi vengono consumate circa 70mila ore di streaming su Netflix, oltre 4.100.000 ore di video su YouTube, inviati 456mila tweet, caricate 46mila foto su Instagram, aggiornate 600 nuove pagine su Wikipedia, condotte 3.600.000 ricerche su Google e Amazon genera 258mila dollari di fatturato. Sono stati prodotti più contenuti (e dati) negli ultimi dieci anni che nel resto della storia dell’umanità.
Molti si limitano ancora oggi a relegare questi comportamenti alla pura sfera digitale, come se uno stesso individuo conducesse due vite separate e in contrapposizione. La verità è che queste piattaforme, tutte o quasi inesistenti fino a 10 anni fa, stanno vincendo non solo la sfida economica ma ancor di più quella temporale delle nuove generazioni. In un’epoca in cui il tempo è il vero bene finito, dedicare ore guardando un video su YouTube o giocando a un videogioco preclude la possibilità di vivere tante altre esperienze come ad esempio leggere.
L’ultima indagine Istat Produzione e Lettura di Libri in Italia rileva un progressivo calo dei lettori a partire dall’inizio di questa decade con solo il 40.5% degli italiani che ha letto almeno un libro nel 2016 (escludendo motivazioni scolastiche/professionali). Dal mio osservatorio personale non mi stupisce che la fascia dai 15 ai 24 anni sembri essere quella in maggior affanno, la forbice più giovane della Generazione Y (1980-2000) e quella più anziana della Generazione Z (nati post 2000): vive iper-inflazionata da stimoli e ha abbracciato prevalentemente forme di consumo culturale maggiormente legate all’immagine, possibilmente in movimento. Come è possibile che un supporto plurisecolare, obbligatorio durante gli anni della formazione, accessibile addirittura gratuitamente mediante le migliaia di biblioteche sparse per il territorio nazionale abbia un tale problema di penetrazione?
“Da secoli tenuti ai margini delle politiche pubbliche e privati, i creativi rappresentano il punto di partenza per riscrivere le strutture sociali e ripensare i processi economici e culturali del nostro mondo”.
DA FACEBOOK A WATTPAD
Io credo, invece, che mai come in questi ultimi anni si sia letto così tanto. Purtroppo i dati non prendono in considerazione le migliaia di post che leggiamo su Facebook, Instagram e Twitter. I dati non rilevano che molti videogiochi hanno più narrativa che diversi libri messi insieme. Stiamo leggendo tanto, tantissimo e ancor di più stiamo scrivendo. La stessa indagine Istat rileva un aumento del 3.7% dei libri pubblicati in Italia, ma ancora una volta questo è un dato parzialissimo che non tiene in considerazione cosa giornalmente accade su piattaforme come Wattpad, dove milioni di persone leggono e condividono storie per un totale di 15 miliardi di minuti spesi mensilmente su scala mondiale. Storie come quella di Cristina Chiperi, che ha rilasciato gratuitamente su Wattpad il suo primo romanzo a 14 anni, My dilemma is You, ed è stata letta oltre 25 milioni di volte (per poi essere cooptata nel mondo editoriale tradizionale), testimoniano ancora una volta come sia impossibile oltre che anacronistico continuare a perpetrare vecchie classificazioni che rischiano di depistare i decisori pubblici invece di aiutarli.
Il minimo comune denominatore delle piattaforme fin qui citate è stimolare il passaggio continuo di ruoli tra produttore e consumatore di contenuti. Le stesse persone guardano e caricano video su YouTube, si ispirano ai post di influencer su Instagram e al tempo stesso caricano le proprie immagini opportunamente arricchite di filtri e tag. Questa è una sfida immane per le istituzioni culturali, ancora oggi strutturate verticalmente e con distinguo ben precisi tra il visitatore di una mostra e il suo curatore. Io non so predire dove ci porterà questa liquidità culturale, ma quello di cui sono certo è che si tratta di una caratteristica connaturata alle nuove generazioni e non di una moda passeggera. Sul Giornale delle Fondazioni, ebbi modo di scrivere: “Abbiamo una grande responsabilità collettiva. Dobbiamo lasciare alle nuove generazioni un mondo in cui poter pienamente vivere, esprimersi ed essere protagonisti scardinando quella sensazione di apatia e lontananza che ha contribuito a far aumentare nell’ultimo cinquantennio il tasso di suicidi nel mondo del 60%. In un mondo in cui il concetto di proprietà sta diventando molto più labile, si è sempre meno propensi ad acquistare case o auto e addirittura, per estensione ampia del concetto, diminuiscono drasticamente le persone che si uniscono in matrimonio. È necessario uno spostamento dell’asse dall’ ‘io’ al ‘noi’, un superamento della trasmissione dei saperi dall’alto verso il basso a favore di nuovi modelli che prevedano un passo indietro di ‘curatori’ e ‘direttori’ a favore di facilitatori ed ‘enablers’. Non bisogna avere paura di confrontarsi con l’evoluzione della nostra società e con i nuovi strumenti che le rivoluzioni industriali portano in dote”.
SUPERARE LE TIPOLOGIE TRADIZIONALI
Proprio in questi giorni un articolo del quotidiano francese Le Monde segnala come in Francia l’industria dei videogiochi abbia superato per la prima volta per fatturato quella editoriale nel 2017, diventando di fatto la principale forma culturale d’Oltralpe. In Italia, i dati AESVI 2016 indicano che quasi il 50% degli italiani ha utilizzato almeno un videogioco lo scorso anno, con un tasso di penetrazione tra le nuove generazioni quasi doppio rispetto alla lettura.
Con questo paragone libro/videogioco non voglio assolutamente argomentare che il primo sia morto, così come non credo che lo siano il teatro o altre forme “tradizionali” di cultura. Da lettore accanito, sono altresì convinto che leggere – oltre ai tanti significati che tutti conosciamo – rappresenti il baluardo ultimo dell’immaginazione creativa, uno degli ultimi media in cui le immagini nascono dal nostro cervello stimolando viaggi e sogni a occhi aperti. Suggerisco invece di superare le tradizionali ripartizioni per supporto (e relative associazioni di categoria) e ragionare su una cultura orizzontale basata sulla tipologie di storie/emozioni che questi media vogliono raccontarci. Nel 2018 ha ancora un senso che le biblioteche (e mi riferisco a quelle poche di nuova concettualizzazione: mai potremo attribuire il giusto merito al lavoro di Antonella Agnoli), presentino ancora aree divise per libri, fumetti, musica, film e videogiochi? A me tutto questo sembra ancora figlio di un modo di interpretare e vivere la cultura basato su classificazioni del secolo scorso che poco, o nulla, hanno a che vedere con la quotidianità dei nuovi pubblici. Nel caso specifico sogno una biblioteca dove poter trovare per tematismi sul medesimo scaffale libri, fumetti, videogiochi, oggetti di design, fotografie, film e qualunque altro media indipendentemente dal suo supporto.
“Io non so predire dove ci porterà questa liquidità culturale, ma quello di cui sono certo è che si tratta di una caratteristica connaturata alle nuove generazioni e non di una moda passeggera“.
INCUBATORI DI IDEE
Le istituzioni culturali (musei, biblioteche, teatri) hanno l’obbligo morale di diventare incubatori di idee, motori di innovazione e, ancor di più, destinazione privilegiata per creativi e inventori provenienti da ogni parte del mondo. Le istituzioni devono riappropriarsi di un ruolo di apripista nella sperimentazione, devono guidare il futuro e non seguirlo. Immagino un museo in cui la componente di “consumo” culturale” sia almeno paritetica a quella di “produzione”, divenendo un luogo in cui avvenga quella auspicata sintesi tra impianto umanistico e rivoluzione tecnologica necessaria per riscrivere il nostro mondo.
Progetti pilota come il videogioco Father and Son (1.400.000 download mentre scrivo) realizzato dalla neonata associazione culturale TuoMuseo (vincitrice del bando Innovazione Culturale di Fondazione Cariplo) hanno dimostrato al mondo come questa sintesi sia possibile e di mutuo nutrimento per le parti in causa. Non smetterò mai di ringraziare il Museo Archeologico Nazionale di Napoli e quei pazzi illuminati del direttore Paolo Giulierini e il prof. Ludovico Solima, per aver accettato questa scommessa dimostrando come l’Italia possa giocare un ruolo di avanguardia quando, partendo dall’esistente, provi a immaginare nuove forme per trasmetterlo e restituirlo attraverso una contaminazione di linguaggi. Diretta conseguenza di quanto fin qui raccontato è il lancio del progetto Playable Museum con il Museo Marino Marini Firenze, una sfida innovativa in cui saldare le 3C del nostro futuro: Coinvolgimento, Contaminazione e Creatività all’interno di nuove forme partecipative. Riprendendo le parole di Patrizia Asproni, presidente del museo: “Il Playable Museum Award è una sfida e nasce dall’esigenza sempre più forte di cambiare il nostro modo di considerare i musei, anche per attrarre e coinvolgere le nuove generazioni. Il Marino Marini di Firenze vuole diventare un hub di innovazione e sperimentazione, un museo-laboratorio dove pensare e creare prototipi e idee da poter poi declinare anche in altri musei. La call che lanciamo è uno degli strumenti che utilizzeremo per raggiungere i nostri obiettivi. Ma non è la sola. Il Museo sta collaborando con personalità internazionali, leader culturali, innovatori, makers e futurologi per ri-pensare il museo e i suoi spazi. Una sorta di think-tank museale che inizierà a dare i suoi frutti già dalla riapertura del museo a primavera”.
Se si sogna da soli, è solo un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia.
‒ Fabio Viola
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati