Architetti d’Italia. Dante Benini, l’outsider
Nuova tappa della saga dedicata da Luigi Prestinenza Puglisi all’architettura italiana. I riflettori si accendono su Dante Benini, personalità difficilmente ingabbiabile in una singola definizione.
Nel 2009 Cesare Casati, direttore dell’Arca, affidava a Dante Benini la cura del numero 254 che sarebbe uscito nel gennaio 2010. L’incarico faceva parte di un programma ambizioso: delegare alcuni fascicoli della testata ad altrettanti guest editor scelti tra personalità esterne, critici o professionisti affermati. Ricordo ancora la sorpresa di ricevere la telefonata di Dante Benini che mi ingaggiava nella squadra. Lo avrei aiutato per i testi mentre la grafica la avrebbe curata Massimo Vignelli. Avremmo preparato qualcosa prima, sentendoci al telefono, e poi vedendoci a Milano e, infine, con una bozza già imbastita, saremmo andati in un fine settimana a trovare Massimo Vignelli a New York, dove risiedeva vicino a Central Park. Sarebbe venuto, come in tutte le imprese da Benini giudicate importanti, anche Luca Gonzo, suo principale collaboratore, senior partner e managing director dello studio.
L’idea che la grafica la gestisse Vignelli mi stupiva. Conoscevo Dante Benini come autore di edifici formalmente complessi e non immaginavo che si sarebbe affidato a un grafico così classico e asciutto. Ho capito poi che è la sua filosofia di vita. Andare oltre ogni questione stilistica per fare le scelte che in quel momento garantiscono il prodotto. L’esperienza dei due giorni di lavoro a New York fu entusiasmante: raramente ho avuto il piacere di lavorare con tre persone, anzi quattro perché c’era una collaboratrice spagnola di Vignelli, così diverse e affiatate. Segno che, quando è in gioco la qualità di un manufatto, qualsiasi esso sia, le considerazioni sullo stile, che in teoria sembrerebbero fondamentali, si rivelano meno importanti del previsto. Dante Benini nella Grande Mela si muoveva come un pesce nell’acqua: conosceva tutti e tutti sembrava conoscessero lui, compreso un italo-americano, autista di limousine, che mi fece vedere le foto di tutti i politici che aveva scarrozzato, ed erano quasi un centinaio e molto importanti, per portarli – lui diceva – a donne o anche … chissà… e taceva per farmi capire. Anche nell’albergo dove eravamo alloggiati, un hotel di design firmato da Philippe Starck, non c’era addetto del personale che non lo conoscesse e con cui non scambiasse quattro parole, tanto che avevano esposto una sua monografia, recentemente pubblicata, nella stanza del biliardo dove c’era una libreria per gli ospiti. Benini veniva spesso a New York, ma mostrava molto di più della consuetudine di un frequent flyer. C’era l’abilità del professionista di trovarsi a proprio agio dappertutto.
LA FORMAZIONE E BRUNO ZEVI
Ho pensato di raccontare questo episodio perché non riuscivo ad affrontare altrimenti il personaggio e da diversi giorni rimandavo la stesura del suo profilo per questa grande serie dedicata agli Architetti d’Italia, bloccato davanti alla finestra bianca dello schermo del mio Mac. Poi ho pensato che un aneddoto sarebbe potuto diventare una buona chiave di lettura per raccontare la sua difficoltà a essere inquadrato in uno stile. E difatti, se ci fate caso, nella biografia, lui stesso non esita a ricordare un apprendistato stimolato dall’incontro di tanti personaggi, uno diverso d’altro. Vi dice che si è formato con Carlo Scarpa, presso il quale ha imparato il mestiere e l’amore per il dettaglio, aggiunge che ha frequentato lo studio di Frank O. Gehry a Santa Monica e che si è laureato in Brasile con Oscar Niemeyer. Non manca un soggiorno in Austria, dove ha frequentato Richard Meier, un architetto con il quale poi ha avuto occasione di collaborare nella costruzione del Ponte Cittadella ad Alessandria. Insomma, quattro professionisti uno diverso dall’altro.
L’aneddoto del soggiorno a New York racconta anche un’altra cosa, e cioè la catena di rapporti umani che Benini riesce a intessere e che derivano da una predisposizione caratteriale ma anche dalla strategia professionale di chi il suo tessuto di relazioni sociali non se l’è mai trovato per dato e se lo è dovuto costruire pezzo dopo pezzo. Mi chiedo se la guerra che alcuni architetti di buona famiglia di Milano ancora oggi gli fanno non derivi proprio da questa condizione di outsider, di chi le conoscenze, invece che trovarsele per eredità, deve costruirsele.
Se Scarpa, Gehry, Niemeyer e Meier sono tra i principali riferimenti, il faro di Dante Benini è stato Bruno Zevi. Un personaggio che ha dovuto corteggiare a lungo prima di riceverne l’attenzione. Forse perché all’inizio lo disorientava: anche per un critico dall’occhio infallibile ci sarà voluto del tempo per ricostruire in un quadro unitario le qualità di una figura di progettista sicuramente complessa. Comunque siano andati i fatti, Zevi ha dedicato a Benini un’attenzione riservata a pochi. Nel 1993 scrive sull’Espresso un commento sui laboratori di ricerca Transfer 2, nel 1996 per lo Science Park di Farmitalia a Nerviano (MI) e nel 1999 per il padiglione C.F. Gomma a Brescia. Poi i numerosi progetti pubblicati su L’Architettura Cronache e storia e un paio di premi InArch. Un quarto articolo sarà trovato nella macchina da scrivere del critico, il giorno della sua morte. Benini lo conserva come una reliquia.
Se Benini non è facilmente riassumibile in una formula, ciò non vuol dire che nella sua opera non si trovino tracce di una pluralità di riferimenti. A volte, a mio parere, ce ne sono sin troppi. Sarebbe però un errore soffermarvisi. La qualità delle opere di questo autore è, infatti, altrove.
CONTRO I MODELLI PRECOSTITUITI
Quando sono andato a vedere i suoi edifici, quali la sede della Torno a Milano o gli stabilimenti farmaceutici Ibrahim a Istanbul, sono rimasto colpito dalla abilità con la quale in ogni occasione riesce a trasformare i problemi tecnici in pretesti spaziali e in fatti luminosi. Pozzi di luce che raggiungono decine di metri di profondità e permettono la realizzazione di giardini sotterranei che danno qualità a spazi altrimenti tetri, passeggiate architettoniche che umanizzano gli ambienti del lavoro, griglie che filtrano la luce. Le scelte sono sempre determinate da concretezza, da sano pragmatismo. Ricordo ancora che per giustificare l’inserimento di alcuni condotti impiantistici in esterno, protetti da griglie traforate, Benini mi ha fatto notare il risparmio consentito al cliente in termini di cubatura, nonché la maggiore facilità di manutenzione dei tubi che potevano essere raggiunti dai terrazzi esterni e non si trovavano in cavedi chiusi di cemento, che avrebbero oltretutto compromesso la flessibilità della distribuzione interna. E per giustificare una luce che dal basso sparava su uno schermo posto in alto, con notevoli effetti scenici sulla scala che illuminava, mi faceva il conto del risparmio che il committente avrebbe ottenuto sulla bolletta energetica utilizzando il potere di quella superficie riflettente. Ricordo, infine, la minuziosa precisione con la quale mi consigliò alcuni profili di alluminio al posto di altri, di poco migliori ma eccessivamente costosi, tanto da non giustificare la spesa.
Ecco forse altri due motivi per i quali alcuni lo amano poco. Perché conosce il valore del denaro e quando sceglie un prodotto non lo fa solo perché fa moda. Ma, soprattutto, perché non ragiona mai a partire da modelli estetici precostituiti. Non fa troppe questioni di coerenza stilistica. Rifiuta un approccio superficiale all’architettura fatto di ineffabili trame. Non si trova a proprio agio davanti alle retoriche accademiche del bel disegno. E difatti i suoi edifici rendono molto meglio dal vivo che nelle immagini dei fotografi. Certo, questo non vuol dire che di retoriche non ne segua altre o che non abbia inciampi. Ma la sua lezione ‒ che si possa fare poesia dello spazio solo a partire da un solido approccio professionale ‒ merita attenzione. E questo Bruno Zevi, che lo ha sostenuto fino in fondo, Cesare Casati, che lo reputa uno dei migliori architetti oggi operanti in Italia, e Cesare De Seta, che gli ha dedicato un profilo nel recente Architetti italiani nel Novecento, lo hanno ben capito.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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