Performance e umanità. Intervista con Adelita Husni-Bey
L’artista milanese sta per andare in scena nella sua città di origine con una performance che animerà gli spazi esterni e interni del Museo del Novecento. Ne abbiamo parlato con lei in una lunga intervista.
Al Museo del Novecento, la programmazione delle Furla Series #01 ‒ Time after Time, Space after Space, iniziata nell’autunno 2017, con Simone Forti e ad Alexandra Bachzetsis, prevede altri due appuntamenti con Paulina Olowska (6 marzo) e Christian Marclay (13-14 aprile). Mercoledì 17 e giovedì 18 gennaio, alle 19, sarà la volta di Adelita Husni-Bey (Milano, 1985) con Frangente/Breaker, una performance in tre atti che si snoda lungo un percorso all’interno e all’esterno degli spazi museali. Basandosi su un’idea partecipativa di performance, l’artista organizza articolate situazioni laboratoriali, indagando il rapporto tra dimensione individuale e collettiva. Abbiamo approfondito con lei i diversi livelli fisici e temporali di Frangente/Breaker.
La tua installazione, al Padiglione Italia, rispetto a Cuoghi e a Calò, era, teoreticamente e a livello compositivo, salda, solida, esatta. A distanza di sei mesi, come lo rileggi?
Ogni fine di un lavoro rappresenta per me una piccola morte, un distacco seguito da un lutto che può durare molti mesi e che io devo ancora elaborare. Non è ancora arrivato per me l’allontanamento finale da quel progetto e non ho ancora approfondito del tutto i pensieri che ho espresso, anche se mi sono già mossa oltre.
A partire dalla Biennale di Venezia, per arrivare al progetto che hai sviluppato alla Serpentine, quali sono le tematiche di trasmissione o di anticipazione della conoscenza umana sulle quali ti stai soffermando attualmente?
Il lavoro della Biennale è stato umanamente enorme, monumentale, anche a livello fisico. Quando ci si espone a quel modo, ritengo si subisca sempre una sorta di trauma. Adesso sto lavorando a una serie di progetti che si sono sviluppati dopo la Biennale come quello della Serpentine, che tratta le funzioni della cura, seguendo un testo di Eva Feder Kittay, dal titolo The Ethics of Care, Dependence and Disability. Qui si evincono tre concetti separati: quello di dipendenza come forma necessaria per la vita: di indipendenza come dinamica imposta dal sistema economico cui partecipiamo, e, infine, di isolamento, che proviene dall’associare alla dipendenza delle connotazioni negative. Alla Serpentine ho approfondito quei lavori che fanno della dipendenza un mestiere.
Ad esempio?
Ho lavorato con le madri e le allevatrici di un asilo nido pubblico a Londra, il Portman Early Childhood Center. Con loro ho deciso di inventare una tecnica per scrivere un libro per bambini che parli di cura e di tagli agli asili pubblici, coralmente. Nei primi incontri ho raccolto pensieri, necessità e idee maturate da queste persone nei riguardi dell’atto di cura, dalle loro esperienze nell’asilo, utilizzando una serie di esercizi derivanti dal Participatory action research (PAR). Negli incontri successivi, partendo da queste idee, ho disegnato delle scene. Le illustrazioni venivano in seguito utilizzate come spunti per lo sviluppo della narrativa del libro attraverso il teatro e l’improvvisazione. Il libro è stato quindi scritto di settimana in settimana secondo le improvvisazioni del gruppo partendo dalle illustrazioni della settimana precedente.
Molto spesso, nei tuoi lavori, la rappresentazione di una dimensione parallela a quella umana offre letture simboliche ma premonitrici sulla vita quotidiana. Questa capacità di saper leggere l’invisibile quali relazioni instaura con la dimensione fisica e corporea?
L’altro giorno mi sono ritrovata a pensare che quando si fissa a lungo una persona sconosciuta, questa poi, inevitabilmente, finisce per accorgersene. Sicuramente sono meccanismi inconsci, di difesa, atavici, reazioni che il nostro corpo porta con sé a partire da un periodo durante il quale eravamo cacciati/ cacciatori, ma è curioso pensare che abbiamo ancora una capacità invisibile di scuoterci. Questi legami invisibili si collegano direttamente alle nozioni di magia che ho approfondito in Biennale, cioè di una dimensione “magica” della collettività, irripetibile.
Dunque attraverso un’azione pubblica per creare un unico momento di riflessione sull’autorità, sull’idea di barriera e di confine, sul concetto di nazionalismo e sulla percezione dell’altro, che cosa scopriremo?
Arrivati in biglietteria, si verrà smistati in sei gruppi che verranno portati davanti a diverse opere del museo, da me scelte. Questo è il primo dei tre atti e l’unico durante il quale il pubblico verrà direttamente coinvolto. Si verrà portati davanti, ad esempio, a Cemento Armato di Uncini, al Quarto Stato o a un dipinto di De Pisis, lavori che per me possono traghettare il pubblico verso il secondo atto. In quel frangente ci sarà un esercizio del Teatro dell’Oppresso, un esercizio di percezione che io ho leggermente modificato (Il Coro e/o Concentrazione).
E il secondo atto?
Il secondo atto, invece, sarà solo di ascolto. Ci saranno tre coppie che cammineranno, avanti e indietro nello spazio della Sala Fontana, guardandosi negli occhi. La coppia è composta da una figura che io chiamo l’interlocutore ‒ la persona italiana che correggerà le pronunce e risponderà alle domande ‒ e il cosiddetto lettore, persona recentemente immigrata in Italia che reciterà i testi. I testi trattano l’esilio e non la migrazione perché il concetto di esilio connota una forma di scelta che va al di là del vittimismo che spesso viene addossato al migrante. Tutti loro hanno una voce, non c’è bisogno che qualcuno gliela fornisca. Non voglio fornire un senso di pietà nei confronti di persone che hanno bisogno di un semplice, pratico supporto. Il lavoro vuole sottolineare le diverse facce dell’integrazione, il paternalismo dell’integrazione, l’inevitabile potere, eticamente complesso, presente all’interno del gesto di aiuto, di supporto, ma anche la sua necessità e la sua dolcezza.
Poi si uscirà in Piazza Duomo…
Ho insistito molto sul fatto che l’ultimo atto, il terzo, potesse essere completamente aperto alla città. Anche se le persone che vi assisteranno potranno non aver preso parte agli altri due atti e potranno avere una percezione differente della performance. Ma, d’altra parte, ognuno dei gruppi facenti parte del pubblico iniziale avrà avuto un’esperienza dissimile, a seconda dell’opera di fronte alla quale si saranno concentrati, al museo. Dunque, una volta in Piazza Duomo, avverrà una performance che ho già messo in scena sia in Italia che in Belgio, e più recentemente in Svizzera: Action for a Sandbag Brigade (2011). Una catena umana che sposterà, secondo una coreografia specifica, circa 400 sacchi creando muri temporanei, come quelli che si costruiscono durante le inondazioni. Muri che vanno a distruggersi gli uni con gli altri, a mano a mano che vengono innalzati, terminando in un affanno infinito e inutile.
Chi saranno le persone che coordinerai durante la performance?
Ci saranno diversi performer che, come negli altri due atti, non sono professionisti. Nel primo atto ci saranno le guide del museo che impareranno a memoria un piccolo testo; nel secondo atto ci saranno componenti di Zona 8 Solidale, un gruppo di cittadini che ha creato un centro di supporto fuori dall’ex Caserma Montello (un CPT recentemente chiuso a Milano) e i migranti che li hanno abitato per un periodo. Nell’ultimo atto, ci saranno alcuni membri di Zona 8 e altre persone che hanno raccolto il nostro appello. Non c’è nulla di scritto, dunque il margine di errore e il caos faranno parte integrante del lavoro.
Potresti fornirci una definizione di potere?
Ritengo sia un rapporto di forza che viene spesso oscurato. Con il mio lavoro intendo rendere visibile quell’invisibilità che invece fa gioco al potere. Uscendo dallo stereotipo di chi ha il potere, di come si manifesta e di cosa significhi essere “buoni” o “bravi” o “senza potere”. In questo senso mi riferisco anche ai rapporti di potere interni alle dinamiche di accoglienza.
Come è cambiata la tua visione dell’autoritarismo, da quando risiedi a New York?
Credo che non sia variata. Trump è un’espressione estrema di un sistema economico brutale. Ma non è né nuovo né scioccante, anzi, purtroppo è completamente in linea con la storia e lo sviluppo di quel Paese.
A quali progetti stai lavorando per il 2018?
Il 12 marzo si aprirà una collettiva al MoMA, all’interno della quale verrà mostrato un mio lavoro fotografico commissionato dal museo stesso e realizzato come laboratorio con il dipartimento di educazione. Ho lavorato con un gruppo di teenager e studenti per ripensare al MoMA come un’istituzione svuotata del proprio ruolo originario, a causa di un ipotetico evento futuro.
Quale sarà il suo titolo?
Il progetto, dal titolo The Council, ha dato modo ai ragazzi, all’interno di tre o quattro giornate di lavoro, di formare un Consiglio per ripensare la funzione di quel luogo. “Il Consiglio” aveva infatti il compito di decidere del futuro degli spazi museali, e se il museo avrebbe continuato effettivamente a essere un museo. I ragazzi hanno elaborato diverse proposte, tra le quali un centro di accoglienza per una New York inospitale, altri volevano far diventare il MoMA una sorta di centro di detenzione, dove le persone meno abbienti venivano tenute ai piani bassi, per essere poi utilizzate all’interno dei lavori d’arte, venduti in seguito per generare profitto per le persone che si sarebbero trovate ad abitare nei piani alti. Le fotografie che rimangono come unica traccia del lavoro sono state scattate nella Sala dei Fondatori, proprio dove vengono prese decisioni fondamentali per il Museo. I ragazzi si sono confrontati con la responsabilità di riformulare uno spazio grande e articolato come il MoMA, ripensando tutti i suoi spazi e le sue ragioni di esistenza.
E poi?
In Italia ci sarà una mostra che raccoglierà circa dieci anni di miei lavori, per dare un senso di continuità ai progetti realizzati in passato e per dare nuova luce all’installazione esposta in Biennale. Sarà una raccolta estesa, ma ancora non posso rivelare altri dettagli. Mi aspettano poi una mostra a Mulhouse e un’altra a Trondheim, sempre in spazi pubblici.
Potresti esprimere un pensiero, un augurio che accompagni Frangente/Breaker al Museo del Novecento?
Mi auguro solo che sia un’esperienza umanizzante, è un periodo in cui ho bisogno di calore umano.
‒ Ginevra Bria
www.gallerialaveronica.it/artists/adelita-husni-bey/
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