La Pietà di Fabio Viale a Milano. Storia dell’arte, racconto evangelico e riflessioni sui migranti

Il Cristo strappato dal grembo di Maria. Il marmo lacerato. Il vuoto riempito da un altro corpo, nero. Fabio Viale si confronta con la storia dell'arte e con i grandi temi sociali. Rischiando polemiche e inciampi. Ma non perdendo autenticità. Le foto della mostra alla Galleria Poggiali.

Misurarsi con uno tra i più straordinari capolavori scultorei di Michelangelo non è cosa semplice. Ripensarlo, attualizzarlo, interpretarlo, tradirlo, anche solo citarlo in qualche modo. Eppure, la Pietà, tra i pilastri visivi della tradizione occidentale, di artisti ne ha indotti in tentazione parecchi. Anche nel corso di una contemporaneità secolarizzata, disaffezionatasi alla pratica della rappresentazione del sacro. Basti citare gli esempi di Marina Abramovic (Anima Mundi, 1983), Bill Viola (Mary, 2016), Sam Taylor Wood (Pieta, 2001), Jan Fabre (Pietas, 2011), tra i più noti a livello internazionale.

IL CRISTO NERO DI VIALE, A MILANO

Una nuova prova arriva dal 18 gennaio a Milano, in Foro Bonaparte, nel nuovo spazio della Galleria Poggiali, già presente con tre sedi storiche a Firenze e Pietrasanta. L’opera la firma Fabio Viale (Cuneo, 1975), virtuoso della scultura, che al marmo assegna una declinazione concettuale, passando da una manualità vissuta come esercizio della sensibilità: conflitti, tensioni, modulazioni della materia, attraverso forme classiche che spingono verso l’universale.
La cura del progetto è di Sergio Risaliti, neo direttore del Museo Novecento di Firenze, studioso del Buonarroti, dal 2015 alla guida della Settimana Michelangiolesca. E proprio Risaliti – che alla Pietà vaticana ha dedicato un saggio nel 2015, scritto a quattro mani con Francesco Vossilla e pubblicato da Bompiani – nell’estate del 2016 aveva destato curiosità e polemiche con un intervento in Piazza della Signoria: una copia del David, dipinta di nero e stesa al suolo come una colonna crollata. All’indomani dell’ennesimo naufragio di migranti, quel gesto accostava mitologie e memorie rinascimentali a uno dei più grandi drammi della contemporaneità.

Fabio Viale, Pietà senza Cristo, 2018 -Galleria Poggiali, Milano

Fabio Viale, Pietà senza Cristo, 2018 – Galleria Poggiali, Milano. Foto Michele Alberto Sereni

UNA STORIA D’AMORE

Ed è questa, di nuovo, la prospettiva scelta da Viale per il suo progetto milanese. Immigrazione e storia dell’arte, il sacro e l’umano, il tragico e il sublime, la cronaca cruda e la riflessione alta: Maria tiene tra le braccia uno dei suoi figli disgraziati, dimenticati, martoriati, in fuga tra le acque del Mediterraneo. Non un cadavere, ma il corpo di un sopravvissuto. Non una figura simbolica, ma un uomo qui e ora, col suo vissuto difficile. Lucky Hei è un profugo nigeriano di fede cattolica, scappato dal suo paese per motivi di persecuzione religiosa e approdato in Italia, dove ha incontrato la salvezza, la libertà. Una storia d’amore anche questa. Perché è l’amore, in ogni caso, a tenere insieme tutte le versioni moderne della Pietà: dall’amore per Ulay, nel caso di Abramovic, all’amore che gioca con la morte nella versione macabra di Fabre.
Il vero Amore non è altro che un certo sforzo di volare a la divina bellezza, desto in noi dallo aspetto della corporale bellezza”: uno dei passaggi più celebri del De Amore di Marsilio Ficino conteneva già, in una sola immagine luminosa, il cuore di un pensiero audace intorno all’uomo e al suo rapporto con l’assoluto. La Pietà vaticana è in tal senso un manifesto compiuto, in cui si rivela il tema immenso dell’incarnazione. Nessuna visione è più perentoria di questa che Michelangelo regalò al mondo nel 1500: il Cristo colto nella sua verità di cadavere, che fu uomo, che fu bambino, che lo è ancora nel grembo della madre. Dio fattosi carne, a raccontare il vincolo assurdo: l’alto e il basso, il finito e l’infinito, il bello come spirito e insieme come materia. Nell’Amore iconico tra Maria e Gesù si racchiude il senso dell’Amore in sé, forza primigenia da cui la vita viene, trasmuta. Ed è, quella scena di dolore materno, una metafora dell’amore di Dio per tutti i suoi figli, a cominciare dagli ultimi, dai disperati, dai sacrificati.

Fabio Viale, Lucky Hei, Galleria Poggiali, Milano, 2018. Foto Michele Alberto Sereni

Fabio Viale, Lucky Hei, Galleria Poggiali, Milano, 2018. Foto Michele Alberto Sereni

POLEMICHE E PROVOCAZIONI

Viale, insieme a Risaliti, struttura il progetto in tre capitoli, con una bella progressione di pesi e di sostanza: da un lato l’oggetto scultoreo, con la lacerazione del marmo in evidenza, laddove il Cristo è stato strappato con violenza; quindi un poster (volutamente non una fotografia patinata) con l’immagine di Lucky Hei tra le braccia di Maria; e infine una traccia audio, affidata alla voce del giovane profugo: nella volatilità della parola egli traduce il dramma di una vicenda biografica – la sua – e la potenza di un racconto senza tempo, quello evangelico e michelangiolesco.
Scontata l’ondata di polemiche che si leverà all’indomani dell’opening, tra chi sente come offensiva l’altrerazione di un’immagine sacra e chi interpreta la realtà dei flussi migratori come l’origine di ogni male. Ed è proprio a pochi giorni  dalla mostra che il dibattito politico nazionale precipita nell’ennesimo episodio a sfondo razzista, unendo l’orrore al ridicolo: il candidato governatore della Lombardia per il centrodestra, Attilio Fontana, parla di minaccia per la razza bianca, in conseguenza dell’arrivo massiccio di africani e islamici.

Fabio Viale dinanzi alla sua opera Lucky Hei, 2017. Foto Michele Alberto Sereni

Fabio Viale dinanzi alla sua opera Lucky Hei, 2017. Foto Michele Alberto Sereni

L’ombra del nazifascismo è ancora là, in forma di farsa, di uscite grottesche, di folclore nero. E intanto il fronte populista continua a cavalcare la paura, mistificando: nessun numero reale supporta la tesi dell’invasione, nessuna teoria scientifica, nell’era degli studi sul genoma, prenderebbe mai sul serio la favola ideologica sull’esistenza di razze distinte.
Poco male per Viale: le reazioni che verranno – e che in parte sono già arrivate: il Secolo d’Italia parla di un’opera “obbrobrio”, un’“assurda Pietà pro migranti” – certificheranno il carattere e l’incisività di un progetto difficile, provocatorio, che non era esente da rischi – dal surplus di retorica all’indugiare su un dramma attuale, dall’effetto shock alla semplificazione di un tema politico-culturale enorme – ma che trova senso nel tempo lungo e nell’intelligenza del processo scultoreo, nella forza simbolica di quello strappo a vista, nella sintesi di un allestimento severo, nella cruda testimonianza di un perseguitato. Non un manifesto pubblicitario, non un’operazione di comunicazione, ma il progetto di uno scultore, che dalla storia dell’arte approda a una riflessione sociale: rischiando, sfidandosi, prendendo di petto la sensibilità comune.

– Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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