Sostra – Mostra Torino: da Nietzsche a Dioniso
Mostra personale
Comunicato stampa
E da Dioniso al mito esteso. Quindi Zeus, Era, Afrodite, Apollo, Atena, ma tutti attorno all’übermensch che i miti ha creato e nella sua immaginazione arricchito, sviluppato, anche con un certo taglio avvilito impoverendoli soltanto umani, eppure, è vero, così è, li ha altresì riscattati incornandoli con l’umano senso tragico; perché, che cosa sono gli dèi del mito se non costruzioni della mente dell’uomo come i sogni dei quali necessita perciò si presentano? Terrificanti oppure divertenti, litigiosi, attaccabrighe, invidiosi, parsimoniosi, avari o prodighi secondo l’umore o i momenti.
Proiezioni di difetti e pregi del corpo tragico umano. Ma vitalistici, amanti dell’amore e del godimento, della forza, del coraggio; oltremondani per negazione mai, ma scalatori, camminatori, nuotatori, nel normale scorrere delle faccenduole della vita. L’übermensch imparerà a convivere col mito che è prospettiva della debolezza umana e proiezione della parte di sé che ha coraggio, ardimento, forza, rispetto per ciò che umano non è.
Vivono nel Monte Olimpo. Ma nel Monte Olimpo, come si può ben vedere, non ci sono né ci sono mai stati, perciò non vivono, di per sé, né di qua né di là.
Trovano posto, il giusto posto, nella nostra umana immaginazione che li crea perché in essi possa proiettare ciò che è e costruire ciò che non è. Com’è possibile che una così estesa ricchezza d’inventiva e l’inno alla vita che da ogni mito proviene e fuoriesce in continui racconti che si allargano riproducendosi, l’inno di vera gioia di vivere di cui ogni mito si avvale, siano diventati quell’infinita tristezza e rinuncia alla vita – voglia di morte addirittura – che da duemila anni opprime e trafigge, maltratta, percuote, distrugge il cervello degli umani? Fino alla mortificazione, al totale annullamento del proprio corpo nella previsione di una ipotetica e, per le leggi, l’impostazione delle leggi della natura, assurda idea di resurrezione? Ma che senso avrebbe per la natura far rinascere ciò che è morto, marcio e scomposto anziché farne uno nuovo? E perché, secondo quale inconcepibile scelta dovrebbe farlo per gli umani e non per la formica o la pulce? Come si fa a credere ancora a simili fantasie dalla univoca tendenza morbosamente funerea e a non pensare che sarebbe invece opportuno fare una pianificazione delle nascite a livello globale? Siamo diventati troppi – pensa un po’, la resurrezione della carne di tutti coloro i quali sono nati e hanno vissuto, carne che essendo tale dovrebbe cibarsi, verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere su questa sconcertante credenza – siamo troppi già senza i “resuscitati”, e questi troppi occupano suolo e consumano prodotti, i rifiuti dei quali dovranno in seguito essere smaltiti.
Il sesso solo per la procreazione, come si può ancora andare dietro a queste folli imposizioni?
Sono nato in una terra di miti, ma non amo una parte dei siciliani e non amo la Sicilia di quei siciliani – non credo che questo brullo, spinoso, lavico, salato e assetato trilatero riuscirà mai a scrollarsi di dosso quattro secoli di Spagna inquisitoria –, ormai smarrita, prona al primo ciarlatano che porge in dote le sue manesche triangolazioni di conquista, devota e in balia a chi promette l’inverosimile, raggirata e di nuovo raggirata con vie-chimere tra Scilla e Cariddi. Terra che ha perduto i miti, tradendoli, maltrattandoli, inzaccherandoli – perché i sacchetti di spazzatura lasciati nelle spiagge? – inzaccherandosi nelle paludose acque dei falsi miti, le acque stagnanti e maleodoranti rinunciatarie della vita. C’era una volta una Sicilia che si chiamava Magna Grecia nella quale è pensabile che sia stata scritta parte dell’Odissea. Cosa è rimasto del mito in Sicilia se non cumuli di turaccioli di sughero rigato, alcuni ancora messi uno sull’altro? Segesta potrebbe salvarsi, conserva ancora una lieve apparenza di sé – nella sua incompiutezza –, il resto è tutto futile e posticcio, non esiste più alcun legame tra i siciliani e le idee che quelle costruzioni hanno eretto. 16/8/17
Anche Friedrich, Caspar, non Nietzsche, capiva la Germania ma non capì la Sicilia.
Nessun cromosoma, nessuna doppia elica.
Ho visto una mostra orrenda; lugubre, gratuitamente lugubre; piagnona in una casa lugubre e piagnona. Anche solo un quadro dell’originale Soutine! “Troppe note”, diceva dietro suggerimento l’imperatore in Mozart-Forman. Troppe, troppe, troppe note; e stonate. E l’idea banale, terrificante – tutta religiosamente italiana in quella ramificazione lacustre e letteraria pozza –, alla fine, che da lì si potrebbe iniziare il percorso, l’idea salvifica che la fine debba diventare inizio in un luogo in bilico. C’è un limite per il rigurgito oltremondano, anche all’accumulo del troppo, la brutta piega dell’esondazione ricercata e messa in bella vista sopra stoviglie di porcellana e d’argento.
Poi un’altra mostra. Poi una circolarità che è controsenso in “New York New York”. Il titolo è segmento che collega due punti. È quella la New York degli italiani? Che tristezza! E quelle tende dietro l’Ottocento miserabile! Allevatore e lacrimoso; patriottico! L’antologica di Burri formato francobollo non è male. Ci si potrebbe quasi giocare. Come da piccoli lo si faceva coi legni colorati, le facciate dei templi con le colonne verdi, il timpano rosso, i capitelli gialli, gli scalini blu. Il mio nome è nessuno, potrebbe gridare tanta di quella pittura triste, informale in quell’allestimento fintamente insulso; il mio nome è nessuno! “Mi capite?” Nessuna risposta, perché nessuno parla, non arriva alcuna voce: sono artisti che in una vita hanno fatto solo questo; da lontano, il sonoro di un video in bianco e nero con una platea di scomodi sgabelli taurini.
Volevo fare un quadro che fosse perfetto.
Né più né meno; disegnandolo e dipingendolo così come avevo intenzione di fare, così come me lo prefiguravo in mente.
Volevo fare un quadro che fosse perfetto. Un quadro del quale poter dire: non cambierei nulla, né l’avrei fatto modificando alcunché. Quando in futuro lo farò ancora – nuovamente – e ancora, questo quadro sarà tale e quale. Uguale anche al passato da dove il quadro proviene, oppure non viene e non va; quello che ho fatto l’ho fatto tal quale a ciò che in futuro sarò: Sostra.
Non è stato impegnativo dal punto di vista del lavoro, né ho impiegato tanto tempo a farlo. “Così, in seguito, dirò perché lo volli”.
Al suddetto quadro, ordunque, sapendolo a priori, essendone cosciente, sicuro e convinto, non sentissi il bisogno di aggiungere pezzo alcuno, o di togliere successivamente aggiunte in precedenza scientemente applicate e accettate come compiute da compiere.
Un quadro, dicasi quadro, è ciò a cui sto lavorando, o meglio tre quadri che ne fanno uno. Un quadro diviso in tre parti, un percorso che inizia, si conchiude, ricomincia senza finire – e ricomincia –. Cartone non preparatorio.
La struttura è di un polittico senza pieghe, di trittico con eguali dimensioni componenti, in uno, poi due e poi tre tanti, un dolore, il bruciore, il grido. Perciò di proporzioni interdipendenti baconiane, senza lacune e soverchiamento tra le parti, anzi parità e livello equino, così da realmente correre da un capo all’altro, da uno all’altro estremo, per scendere poi lungo la balaustra di una scala di pietra e cemento. Ecco, guarda, un giardino pensile, una curva, una discesa, una piazza. Una caverna! ancora una discesa di terra battuta, preziosi cartoni di fondo, e un canneto.
Qui sta il punto, il nerbo, non c’è una parte centrale affiancata da due laterali, parti accessorie, aggiunte del centro; non c’è un centro verso il quale tendere, e a cui fare da contorno, subordinati, osservanti, genuflessi, nell’indifferenza cronica contenti e scontenti di esserlo.
Una proporzione impostata sul rapporto 1,4:1, tre volte ripetuta, a se stessa nel piano conforme, evolutiva nel disegno dritto, inclinato, infine ruotato. Ogni pannello apre bocca nell’iniziale lettera di una parola sufficiente a sé, se insieme di conserto, e lì conclude il suo discorso. Ü di übermensch, N di Nietzsche, Z di Zarathustra – le maiuscole, come gli accenti, se non sono necessarie, non metterle –. Sei colonne scanalate di grafite (una HB più o meno HB di un’altra – secondo che si cominci dal 6B o dal 7H –, cancellando la copia già trascritta, ampliata e corretta, si rompe e va gettata, non è pasto per matitatoi abituati a pastelli, con gusti raffinati che si giovano di colori immaginati nelle strette, anguste, giammai solamente anguste e buie vie di quella Roma d’intrugli, barocca e inquisitoria con perversi e volontari capitelli cascanti), quindi si diceva sei colonne scanalate di grafite incisa e pastello bianco, quattro verticali e due orizzontali.
Primo fui e mi diedero una coppa d’argento che usai anche come posacenere, un onorevole cinquant’anni fa mi consegnò in una scatola blu un portamine e una biro placcate in oro, riuscii a far ossidare quegli oggetti la cui patina non dava un valore aggiunto a una biro e una matita comuni. Primo, secondo e terzo tempo di un percorso di sano sviluppo, di un avanzamento allargato.
Nel novantaquattro, verso le due di una notte liquida, con due valigie fatte di stoffa, che contenevano quadri incorniciati di noce e nero, da Torino arrivai a Tortona, passando per Novara, su un treno che quasi deserto galleggiava nell’acqua. I quadri erano di frutti a tratti e trattini, punti e puntini sovrapposti oppure accostati a velature di rapida essiccazione su cartone telato. I frutti, le stesure pittoriche dei loro ambienti grigi, le loro ombre di un grigio più scuro li sapevo inattaccabili dagli eventi; non si bagnarono infatti, forti come veri muri, saldi in due compatte valigie flosce se vuote, non eretti ma solo pesantemente pensati e con indosso opaca noia dipinti.
Primo tempo: le due colonne appaiate come pilastri della U e due cerchi neri, i punti che la u sormontano; e il mare, l’orizzonte che attraversa anche le colonne, disegnandole con una proporzione che è sospensione della soprastante parte, e leggerezza appesa a una tangenza angolare e circolare con pochi tocchi di contatto, quindi verticale, scanalata levità; ma è anche prospettiva, scioglimento, volatilità, dissoluzione del resto della colonna, la zona pressoché terranea dello zoccolo che incontro all’orizzonte va.
Dunque la base poggia su terra sufficiente a collegare l’estremità di una delle due colonne alla corrispondente estremità dell’altra. La terra pertanto non va oltre questi limiti che s’è data. Il grigio della terra aspetta un colore.
Secondo tempo: qui le colonne sono le aste della N, il nome di questa parte di un insieme che il caso ha voluto posta tra primo e terzo cartone, ognuno dei quali di centimetri 18,6x13,7, come quello che essi tengono stretto. Colonne di varia sostanza, intercambiabili acrobati, se ciò non bastasse trio di danzatori a coppie, fiaccole di giocolieri, carte tra abili mani, le tre pale di una ventola. Il due tra l’uno e il tre e i suoi anagrammi: ude, edu, eud, ued, per deu non c’è posto, è sufficiente il due. Lo spazio fisico nel quale i tre riquadri si muovono è livellato in alto e in basso da un pelo di grafite seghettato, costanti segni con ispidi sprazzi di brio che paiono zampe di locuste sull’arco di un salto assai diluito nel tempo.
Proprio così: il caso, il pittore, la parte di me che è fato ha situato il secondo tra primo e terzo. Come l’übermensch del primo che poteva essere terzo o secondo, e Zarathustra dell’ultimo che sarebbe potuto essere primo o quello appresso.
I punti si sono ristretti, concentrati in un perimetro raccorciato, si sono condensati e non hanno funzioni fonetiche, prerogative di lunatici accenti, obblighi di pronuncia o garbati indirizzi vocali, ma compiti di tenuta e assestamento strutturale, sono presso due spigoli che dai punti vengono ruotati e arrotondati; collegati da un segno obliquo che attraversa e per due volte traversa il mare da un lato all’altro, da sopra a sotto. N, due piani e un taglio, enne, de torsi e un accento dentro il quale convogliare i corpi, il disegno, la pittura, la parola; l’iniziale, terracqueo fonema. Ora il mare non seziona la colonna ma vi sta dietro, ad un tempo prossimo e distante, senza un confine tecnico. Dove finisce il mare? Dove inizia la terra? La sola base delle colonne della N è il dato certo. In Nietzsche si esaurisce il mare e ha inizio la terra; Nietzsche è fatto di terra e da lì in su c’è il mare, sopra il mare c’è il vuoto, non c’è Dio e non ci sono dèi, solo gli strumenti del mito, strumenti mentali e pratici, terrestri e acquatici.
L’oltremondo lo lasciamo ai plagiatori di professione, che si arricchiscono di soldi, proprietà e potere sulle spalle degli ingenui creduloni. Quando arriva il colore per il grigio della terra?
Terzo tempo: qui tutto ruota, cede, s’incurva, galleggia, perde peso. Si avvia a ricominciare un percorso. Z come fine, ma dopo la Z c’è la a dell’inizio, la r del ritorno, il ritorno alla a; t perché lo chiamo tornare al principio; hecce übermensch; sì, confermo che torno, ritorno alla a che è partenza letteraria, vocale, punta di freccia verso l’alto, non di assenso bensì dissenso, contro finzioni e idee oltremondane e similari amene, fantasmatiche, spettrali direzioni. Pochi metri in su c’è il paradiso, da lì pochi metri di lato si trova l’inferno e qualche metro in giù il purgatorio. Ma come si fa a credere ancora a simili trastulli per cervelli parecchio, parecchio in divenire? Ma la sola prima classe elementare dovrebbe essere sufficiente a porgli un veto, ad eliminar convenzioni inerti, a tagliar le scuri ai dritti rami di un progresso logico! Invece si studiano, diligentemente si studiano questi tetrapack di favole fredde.
C’è la scuola materna del plagio, l’elementare del plagio, la media del plagio, e avanti così con falsi passi che cadono su pensieri costrittori e false mete.
Il mare ha larghezza e profondità del periplo di una colonna che si sviluppa in piano girando su se stessa e infinitamente rotolando, fino a limarsi, consumarsi del tutto e sparire. Il mare è fatto di colonne d’acqua a forma di zeta distese.
I cerchi neri sono quattro, angoli del parallelogramma e pantografo, e due i fili, àncora e sostegni di una lapidea colonna magrittiana sospesa, volante, priva di peso: tutte le cose al loro giusto posto, tranne duemila anni di storie da dimostrare, non v’è spazio né luogo per le favole, né posto per l’aldilà; cancellarli è l’ultima spiaggia, l’ultimo mare; Dioniso il mito, Nietzsche il pensiero, Zarathustra la scrittura e la poesia, non i peli di Sansone abbatteranno le menzognere colonne. Al di là delle colonne d’Ercole per l’età dell’übermensch, il tempo, finalmente, dell’uomo libero.
Canali orizzontali, utili culle alla copiosa acqua piovana, che deve lavare e lavare, e piangere, piangere per il dolore, la sofferenza di un lungo tempo duro da sopportare: diteci, di’, lettera ultima, in che modo togliere dal proprio corpo una prigione che misura venti volte cento anni?
Così arriva il colore per il grigio della terra.
Vedo il tintinnio, come di fantasma (ma quando mai!), di una colonna-guida che tiene il conto – a munita è quel che conta; ah, il mercato delle indulgenze! pezzentume da riso tragico in sottane e stole –, eccome tiene il conto, e segue il passo; no, solo il capitello senza la colonna c’è e vedo, la testa senza il corpo; corpo-capo-colonna spaccati in due, due emisferi quadrati; la quadratura e la struttura rigida di un cervello molle, due metà intere per fare quel tutto che è fusione nel doppio. Ragione e istinto, misura e danza, controllo e sfrenatezza, stasi ed ebbrezza, stasi post-ebbrezza, esuberanza, creatività, apollineo e dionisiaco, il fine questo è.
Un capitello, l’abaco, la breve sezione di una colonna scanalata. In mezzo un quadrato diviso in tre parti verticali di costante dimensione e due orizzontali, la parte superiore il doppio della sottostante; e due cerchi, due punti, due lune, quella che si vede e quella che non si vede. Perché la luna, anche quella che non c’è, è sempre tonda; non visibile... e pur sempre tonda. Ch’è cerchio e sfera al contempo. A due tempi, a tre tempi, a quattro tempi, fintantoché in due punti non s’arrende la voglia di contare. In un interruttore, un pulsante, si accende il futuro, si spegne il passato, si accende il passato, si va a spegnere il futuro.
Il trittico su tre cartoni 18,6x13,7
La parte centrale è divisa in due corpi laterali (i canali della N) tenuti insieme da un segmento trasversale che va obliquamente da un punto nero all’altro. È un trittico dal centro divergente e non, viceversa, convergente in esso, come fu scioccamente e per consolidata tradizione, con qualche stiracchiamento malformato e di vergogna tremulo, dannato e chiamato in vanità innovazione, in uso per secoli nel cervello infantile degli artisti illustratori di favole purtroppo ancora in auge, e due volte disdetta perché non come tali, cioè favole, ma come “punto alto del pensiero veridico e serio”.
Un centro che è zona di allontanamento, al quale non tendere ma dal quale, scavalcando memorie apollinee e millenari oltremondi a peso con aureole stellate, forzate promiscuità in mescolanze di storie diverse di popoli e di artigiani più che di artisti – il cui lavoro e la fatica equivalenti sono stati retribuiti a superficie coperta, a numero di figure o di teste e mani con dita in tutto o in parte visibili –, distogliere, dalla parte centrale del trittico, quindi, attenzione, e, magari, distanziare lo sguardo, o quanto meno equipararlo ai laterali che ne sono limiti e prosecuzione di ritorno. È qui bandito, da qui è cacciato quel centro di convergenza artefatto, mellifluo e sinuoso, cu a testa abbuccata, ingannatore, un tanto a figura e comparsa, luogo di contorni pieni zeppi di volti e nuvolette poggiapiedi e cicciosi sederi su panchine ovattate, visi imploranti e trafitture sanguinolente senza un credibile ahi neanche di striscio, ch’è cosa comune all’industria ripetitiva dei polittici bugiardi, immensamente colpevole di aver stipato nella testa l’idea, la convinzione che il dolore necessita, è la via della gioia dell’aldilà truffaldino, e che la sofferenza è piacere; spietata e responsabile, quest’industria per secoli instancabilmente produttiva a pieno regime e prolifica di corpi bramosi d’ombra tristemente cupi, di aver creato nuguli di sadici e popoli di assetati, rassegnati masochisti. Corpi, quelli di questa lugubre classe dirigente, quanto mai loquaci e cavernosi nel dichiarare che il sesso è vergogna e male, di non praticarlo – alcuni facendolo invece in modo mostruosamente deviato e perverso – assai lesti a dettarne le regole “l’assurdo che diventa norma”, i limiti per la pratica e le norme per l’astinenza: l’inconcepibile che dal gregge viene accettato come ferrea (il metallo preferito per strumenti di tortura, cinture di castità e finte povertà) prassi da osservare, come legge da non trasgredire. Perché dettata dal cielo! Cielo nero! Cielo nero! Malmenato e capovolto! Cielo nero! Cielo che t’han tinto di dolore e morte e sadiche illusioni! Cielo, che t’hanno malmenato e capovolto! Che ogni dì dai la tua violenza, perciò insistente, abitudinaria, quotidiana. Proprietà intima di necrofori pensieri e batoste personali.
L’ora di religione, quando dalla storiografia scivola e cade nella dottrina, dalla filologia passa in pianta stabile alla filosofia unilaterale dogmatica, niente di più lontano dal sapere nelle scuole: dal due più due che fa quattro alla resurrezione dei morti e l’oltremondo; il credo nell’inverosimile, il salto nel baratro e nei sassi sopra i quali, stuccandolo contro, viene trasferito di punto in bianco l’intelletto che di lì a poco marcirà. Ecco, questa è l’intelligenza dei sassi; ad hoc per ogni uso e terapia dell’ignoranza e dell’ubbidienza nella costante posizione prona e felicemente consenziente. Ignoranti e obbedienti loro; fregandosi le mani, contenti gli altri.
Il disegno del pannello di mezzo, ossia la zona centrale dell’intero corpo dei tre pannelli, è diviso in due laterali che s’allontanano verso i bordi, quello di destra più dell’altro – ciò aggiunge una contenuta ma sottolineata (sono proprio le colonne a rimarcarlo) e fin lì percepibile asimmetria.
La posizione apparentemente centrale di ciascuna delle tre lettere è in realtà eccentrica, ciò guida tensione e induce spostamento, un movimento – non di immediata percezione cosciente – da sinistra a destra, che infine curva e ruota verso il suolo – verso la beneamata terra dove poggiare i piedi, dove pensare camminando – e non verso l’illusorio cielo degli spiriti perditempo e svolazzanti, annoiati e nullafacenti, incattiviti, rinunciatari, rancorosi, vendicativi. Quel cielo, così pieno di virtù, verso il quale pregare implorando e sperare supplicando il nulla di favole e finzioni con astuzia pilotate, fin dall’infanzia inculcate nell’idea malefica che “avrai un’altra vita in un mondo altro se solo a noi ti affidi nell’anima e da noi ti fai gestire e governare nel corpo”.
Quando l’uomo imparerà a buttare nel fondo più profondo tutto ciò? Eppure un secolo e trent’anni fa Nietzsche aveva dato i mezzi per strappare l’inganno, aveva fornito i numeri esatti per vincere, avere in premio un giusto e credibile futuro da dare in dote di generazione in generazione cancellando i termini di una falsa storia millenaria, aveva reso forzuti, appuntiti e taglienti gli artigli dell’übermensch per liberare i piedi dalle stringhe incrociate (radici sante e immaginari piagnistei di statue)! Si sarebbe stati in grado, raccogliendo a piene mani il gran tesoro di concetti e di parole, opere d’arte di per sé belle nella loro organizzazione in periodi e frasi, di ripartire da capo: da quella data cominciare una nuova, felice era dell’umanità.
Non occorre intaccare fisicamente i monumenti e le icone della trascendenza, immagini pittoriche e plastiche a questa illusione legate, ma ibernarli nella memoria fintantoché nel tempo non si saranno disattivati, per poterli guardare, un giorno, come oggi si guarda un tempio di Zeus o di Atena; abbandonare, questo sì, le città millenarie che attorno a questi simulacri ruotano, costruire vivibili e non fondate su oltremondi nuove città in altri luoghi, rifiutare e ricollocare quel tipo di attrazione artistica perché portatore di inquietudine e asfissianti gabbie mentali.
Se ciò non verrà fatto, se a vincere sarà la “meraviglia” che suscitano certi manufatti – a proposito, come non sopporto gl’intorcigliati rigurgiti barocchi! – l’umanità verrà distrutta dalle sue stesse macabre fantasie nell’arco di una cinquantina di anni.
I luoghi del mito no, ovviamente. Sono da tempo disattivi. Non c’è chi creda, al di là della dimensione mitologica, quindi partorita dal cervello umano ed ivi residente, un po’ in un emisfero, un po’ nell’altro, a Zeus, Atena, Afrodite, Hermes, e in un incontro, seguito da chiacchierata di benvenuto e convenevoli vari, con questi dèi dopo la morte. Difficile pensare che possa esserci chi crede all’esistenza reale, e non circoscritta a un luogo immaginario, di altre figure mitiche come Prometeo; oppure Eracle, Anteo, pur essendo, queste, più vicine all’assetto umano.
Alcuni possono pensare di somigliare ad Amleto, non solo recitando; altri, pochi, si comportano da Don Chisciotte. Ma tutti, tutti tranne qualcuno, sono ad un tempo Anteo ed Ercole, un po’ uno e purtroppo non solo un po’ l’altro. Coi piedi lontani dalla terra moriremo stritolati, e saremo noi a fare e a far compiere il salto nel nulla di quel cielo ingolfato da presenze inventate, irrorato e sanguinario, martoriato per il gusto dell’altrui sofferenza; saranno gli stessi umani ad esercitare, ad imprimere la forza con la quale verranno schiacciati.
L’estinzione degli umani, la mannaia della fine farà posto ad altro, con un taglio netto tra tempo umano e tempo non umano, e farà posto a qualcosa d’altro che finalmente cancellerà l’idea di oltremondo, causa prima di distruzione, la madre di tutte le catastrofi.
Questa mostra la firmo come Sostra e non da Feliscatus.
Torino: da Nietzsche a Dioniso.
L’invasione cristiana di quel territorio dall’osannata conquista chiamato America e Latina, quella disastrosa e criminale presa di possesso iniziata alla fine del quindicesimo secolo, ha partorito, ha restituito un cristiano che cinque secoli dopo apporterà pesanti modifiche all’Europa: distruzione in andata e distruzione di ritorno.
Basta guardare la differenza che corre tra le due Americhe, del nord e del sud, per toccare con mano cosa l’integralismo e l’inquisizione cristiano-spagnoli sono stati in grado di combinare.
E i sinistri? È sufficiente far credere loro che qualcuno si occuperà dei poveri e dei perdenti perché essi vadano in brodo di giuggiole. E allora? Se la sinistra atea si mette a leccare le tonache della morale cristiana non c’è scampo, perché l’intellettuale crede di essere più intellettuale se dice che è di sinistra, pasteggiando però con costosi champagne su rassicuranti basi di rendite più che cospicue.
Ah, l’intellettuale di sinistra!
Ottantanove anni di vita di Michelangelo non valgono quanto qualche giorno di lavoro del Bacon degli anni Cinquanta. Da una parte ci sono decenni di monumenti alla menzogna, dall’altra ore di verità.
La strada era stata tracciata, quindi, quando Picasso aveva vent’anni e da povero iniziava a dipingere la livida pelle della miseria e della rassegnazione dei poveri, mancavano nove anni alla nascita di Bacon – in quel dunque ne sarebbero passati nove dalla morte di Nietzsche – che quattro decenni dopo avrebbe fatto urlare i suoi papi, poca sofferenza nei confronti di quella per secoli arrecata a un immenso numero di umani e animali, delle sante mutilazioni, mentali e corporali, dei corpi uccisi dalle guerre religiose di conquista; solo una lieve messa a nudo – il re è nudo, il papa è nudo! – d’immagine, dove i fronzoli sono gialli e viola, le zanne sono bianche come i colletti, come le gole inciliciate, e gli artigli con l’artrite reumatoide su due binari di talco velázqueziano. Poca cosa se si pensa alle urla, allo strazio, all’immane dolore di chi passava sotto le grinfie dell’inquisizione, di quei papi che tali metodi vollero e ne dettarono le regole. Loro quel tipo di realismo artistico lo facevano sul vivo, loro lo facevano con lena, zelo e divertimento, perché non si è capaci di incutere simile sofferenza se non si ha piacere a farlo. Davano pure le benedizioni, loro; perché si salvasse l’anima!
Ed era facilmente percorribile quella strada. Era il 1900, il venticinque agosto moriva Nietzsche, lasciandoci parole armate perfettamente idonee a strappare l’inganno, svelare l’inghippo della furba e “conveniente” (per quanti lestofanti?) tradizione, ridere dei freni mentali dei cosiddetti tesori d’arte.
Nietzsche si spinse però ad accettare quel pittore d’Urbino – perché la verità oggettiva fosse credibile reputò di mentire in qualche punto, su Raffaello lo fece –. È forse da collegare all’idea di Cesare Borgia papa? Ma, a parte questo, non poteva pensarne bene di Raffaello, anche se costui delle finalità dei dipinti che faceva se ne fregava, quello erano, di quello parlavano e di quello avrebbero parlato, e con quello avrebbero partecipato a plagiare. Quel pittore del quale un certo studente-studioso fece un libro inutile che andava ad assommarsi agli altri di innumerevoli autori – più o meno coerenti con il loro uniforme pensiero ma mai radicali nel negare l’impostazione corrente e conclamata – scritti in precedenza; i critici d’arte sono come certi autori di canzoni, che per mettere d’accordo parole e musica dicono cose strampalate, queste poi, soprattutto se buoniste, passano di bocca in bocca canticchiando, diventano, e loro, le canterine ugole microfonate e tronfie se ne vantano, “cult”. Libri da una a migliaia di pagine, dalla fotografia francobollo alla macro-macro fino alle cacazzine di mosca. Un libro, dunque, sui “trentassettini”, falsamente poetico, prendendo il Sanzio come spunto, incipit, modello imitato dagli eventi; ben altri sono i numeri e i canoni da applicare alle raffigurazioni. Tutti lo citano Raffaello. Come Piero della Francesca, che si pronuncia con enfasi, maggiore di quella che occorre per Leonardo da Vinci. È adattabile Piero della Francesca, va bene per tutti gli “esperti” e per tutte le pagine; nessuna ora, nessun momento esclusi. Piero della Francesca! È chic, è accattivante, reboante, rispettabile, viene da gesticolare a dirne il nome, come se pronunciarlo o scriverlo desse prestigio alla frase, anche al soliloquio, anche all’ignoranza, anche alla falsa competenza, anche allo squallore della pagina.
Non ricordo quale posto occupi Raffaello nella sequenza degli artisti trattati dal libro, è certo però che pur non essendolo nella progressione delle pagine – se così è –, sarà stato il primo venuto in mente all’autore.
Per l’apparente estraneità, l’apparente, solo apparente inosservanza dei “valori” disvalori dichiarati, lo condanno senza appello quel pittore di due venerdì.
Una rana misi in testa al cortegiano e all’urbinate, e non solo a loro; con gli esuberanti, fulminei e vari sentimenti di un trentenne di metà degli anni Ottanta – dedica – : gioco, dispetto, scherno, colori, accumulo, presa in giro, appiattimento, annullamento delle distanze, possessione della storia, rovesciamento della critica d’arte; ridimensionamento e caduta a terra dell’artificio, messo sotto i piedi come uno zerbino sul quale la vita potesse pulirsi gli stivali, per camminare, orma dopo orma, eretta, col fazzoletto annodato in testa e una bicycle tenuta per mano.
La rana che si fermò su Castiglione in un 90x70 di saettanti pennellate idealmente saltò sull’Altoviti, su Doni, sulla Muta. Mai immagini che avrebbero dovuto banalmente trascendere; non meritavano quel tempo che invece dedicai ai ritratti.
Il Castiglione, ambasciatore dal busto triangolare, della gamma dei grigi e del cappello rotante. La tela di un solo giorno, che partì dall’urbinate da giorno santo a giorno santo fino ad arrivare ad astinenza, pigs finlandesi, Crusoe-Palmer in bianco e nero sceneggiati per gli utenti seguaci di “Non è mai troppo tardi” e Gian Burrasca, misfatti e deviazioni di un decennio di boom senza scrupoli e teocrazia imbonitrice.
Già la parola umanesimo è un disastro.
Gli umani sono troppi; bisogna limitare le nascite.
Chiamare il contraccettivo peccato è criminale.
Semicerchio, asta e punto.
Casta, le caste. Due orrori in una sola parola.
L’idea della pianta cruciforme, transetto e navata, e del timpano ascensionale, della torre sonora e disturbante, versocielo puntuta, d’arrogante invadenza, ha guidato per secoli l’assetto urbanistico delle città che in base a queste direzioni strutturano la loro “normalità”. La forma architettonica degli edifici, urbanistica di rapporti e proporzioni tra le varie parti della città, è basata su una supposizione, che sebbene accettata, anche dai carcerati e impigriti cervelli delle masse come forma corrispondente alla normalità nella loro verità storica, istintivamente, quell’istinto animale che questo tipo di lacci mentali rifiuta, viene sentita come fasulla. Noi abitiamo case false in città che mentono.
Occorrono invece insiemi di case di Nietzsche che costruiscano città di Nietzsche. Mentre oggi le città sono a misura dell’uomo basso di cultura, uomo basso ormai anche di natura, ossia dell’uomonano di cervello, che, anziché dall’alto guardare la terra sulla quale poggia i piedi e sta dritto, dal basso guarda supplicante il cielo nel quale cerca il pozzo e perde il senno.
Uno strumento di tortura fa da base grafica, perimetro lineare in pianta e volume in alzata, al termine della quale vi è l’immancabile timpano triangolare culminante nel rimpicciolito punto di partenza; che poi questo strumento di tortura – preesistente alla nascita della credenza che in esso si riconosce –, quindi motivo di dolore, sofferenza e morte, indichi per dirigenti e seguaci di codeste convinzioni resurrezione dei morti (su questo concetto innaturale è costruito l’ambaradan) è un discorso tutto da vedere e verificare. Se la parte superficiale del cervello di questi individui lo accetta “perché così fanno e hanno fatto gli altri”, perciò giusto è che la tradizione continui (i dirigenti non hanno bisogno neanche di tale pezza d’appoggio perché l’interesse lucrativo – è il loro lavoro, ciò che quindi li mantiene – è molla sufficiente a promuovere idee alle quali possono anche non prestar fede), la parte profonda del cervello, il settore dell’istinto animale, non di gregge addomesticato e relegato in recinti, reso scaltro da una capacità logica che millenni fa non avrebbe potuto avere, rifiuta interamente l’assurdità di simili asserzioni che inviano alla trascendenza, della disinteressata bontà – chiunque ti chiede sempre in cambio qualcosa, quanto meno di seguire lestamente le sue convinzioni –, del porgi l’altra guancia, della resurrezione della carne (faceva loro comodo indurlo a credere quando, di riffa o di raffa, corpi da macello mandavano a morte le lunghe e dorate tonache), del rifiuto dei beni materiali – ma se vivono di questi! – e altre inverosimili promettenti linee di comportamento mai messe in pratica – anzi praticando tutto l’opposto –, cose da ridere (sempre per quei dirigenti dagli stipendi e pensioni sostanziose, macchine, autisti e case di lusso) a quei dettami e comandamenti “aggruppati”.
L’idea di stato verrebbe messa in discussione, l’idea di popolo, ma non l’idea di umanità.
Non si comprenderebbero altrimenti i milioni di morti, l’indicibile sofferenza, l’immane violenza, sconvolgendo territori, annullando intere etnie, che la voglia tutta “religiosa” di predominio ha sempre causato.
Quindi ciò che in fin dei conti rimane delle città è lo scampanio di uno strumento di tortura che va a posarsi sul silenzio doloroso dei cimiteri.
Città intoccabili, dicono, perché fatte, pezzo dopo pezzo, da “grandi e piccoli artisti”.
È il punto dolente su cui la vacuità – di oggi – inzuppa il pane nella menzogna di ieri, freno, blocco, ostacolo per la odierna libera scelta, unica salvezza dalla catastrofe prossima ventura.
Due assi incrociati secondo quelle proporzioni e in quel modo utilizzati sono e rimangono uno strumento di tortura.
Indirizzare in tal guisa edifici e città deforma la mente. La sistematica distruzione dell’ambiente deriva da tale deformazione mentale considerata indice di salvazione dopo aver posizionato l’uomo al punto alto del favolistico “creato”. È l’assurdo che assurge a regola e finalità. Impossibile ormai tornare indietro? Impossibile per davvero salvarsi salvando l’ambiente? Perché si è arrivati a questo? Per paura. Paura e sottomissione alle proprie simmetrie di proprietà da altri ad hoc costruite.
Apollineo: un capello in una tazza di vino.
Un tempio greco è un gruppo di alberi, un’oasi di palme, un palmeto dunque; così come noi oggi lo veggiamo, anche senza tetti spioventi e copertura, magari senza frontone e timpano, conserva, accresce quasi la sua efficacia di fonte energica e vitale.
La colonna è un albero, una palma, anche messa a capitello all’ingiù, in questo modo, insieme ad altre, diventa il tempio di Poseidone. Il tempio sotto il livello del mare, nell’acqua origine di vita.
Ma gli dèi greci erano riflessi umani. Di quell’uomo che diverrà rannicchiato, timoroso, peccatore, da purgare col Dio cristiano. La colonna è albero, la colonna è alga, la colonna è palma, la colonna è acqua. I legni incrociati sono pezzi di una colonna morta che vuole essere sofferenza – come finalità dell’esistenza – e, nel suo insieme rigato, appunto come non mai, morte.
Quell’uomo, nell’architettura e urbanistica conformate al simbolo di tortura e morte, in siffatti luoghi – abito protettivo e molla d’immissione, codice e delibera di una latente violenza – prima si costringerà a vivere, poi da essi trarrà lingua malefica e giustificazione a conquiste, massacri, eliminazione pianificata di culture avverse alle truculenti, dolenti favole; troverà via libera ai peggiori genocidi.
Se il riferimento di una dottrina lontana nel tempo, travisata e utilizzata a semplici fini di dominio, fosse morto per mezzo di una sedia elettrica – ammettendo che duemila anni fa l’elettricità ci fosse – oggi avremmo le città impostate sulla forma di tale definitiva – comoda o scomoda poco importa – sedia; se la condanna fosse stata l’impiccagione saremmo circondati di luoghi a forma di forca.
Le favelas sudamericane e i grattacieli nordamericani sono figli della medesima, catastrofica cultura – certamente con differenti reazioni, sottomissione nel primo caso, convivenza in progress e tensione nell’altro – basata sulla resurrezione nell’aldilà; che poi la soluzione sta tutta lì: basterebbe cancellare dalla mente la sciocchezza dell’aldilà sulla quale miliardi di individui si ostinano ingarbugliando le loro menti a credere senza che nessuno l’abbia mai frequentato – si può mai frequentare una cosa immaginaria, inventata e altamente noiosa nella sua stessa impostazione mentale? – per permettere all’umanità di cominciare nuovamente a vivere di gioia e non a morire di dolore e santità.
7/10/17
Dichiarazione di Rauschenberg: Il pittore che mi ha ispirato e prediligo è Leonardo da Vinci. Ma cos’hanno in comune Rauschenberg e Leonardo da Vinci?
Oggi a me poco interessa Rauschenberg e altrettanto poco m’importa di Leonardo da Vinci.
Certo, posso capire Bacon e Velázquez. Tanto mi interessa Bacon (2/12/17 – sto trascrivendo e correggendo, più aggiungendo che togliendo –, in questo periodo un po’ meno), assai poco Velázquez. Tante volte vidi la mostra di Bacon a Palazzo Reale nel 2008, mi diedero alcuni biglietti d’ingresso gratuiti. Una sola volta vidi Bacon al Museo Correr nel 1993, mi fu sufficiente per tenerlo in memoria per molto tempo. Il coraggio di Bacon: quanto un pittore possa essere coraggioso rompendo schemi millenari e faziosi. Nel trittico del quarantaquattro scompare il protagonista millenario, viene annullato. C’è solo la presenza umana, seppure ingannata; privo di centrale priorità non ha presenze di favola soprannaturale. L’umanità sessuata, animale, cancella, elimina, non considera la divinità asessuata, angelica, inumana e dolorante; il dolore fine a se stesso, il dolore per il dolore, questa, finalmente, la divinità cancellata che puniva il desiderio di conoscenza.
Nell’indole – se c’è la c con la sola intenzione si ottiene la d – ignorante per vocazione, sulla condizione sottoposta che brama avere la massa assenziente, che preme sull’ignoranza – come si fa su un pulsante – accendendola, attizzandola, chiamandola a sé, tale passiva contiguità di condizioni fa leva verso arretratezza e sottomissione in strutture atte a promuoverle. L’arma più affilata e tagliente, tuttora si constata di indubitabile efficacia, che ancora preme sull’abitudinaria trascuratezza, della quale si fregia l’assonnata conta di pecore, per mantenerne la credulità al suo interno o davanti, l’arma più efficace che nutre dipendenza e si ciba di pigrizia e indolenza altrui è fatta di architettura, pittura e scultura: quell’architettura, quella pittura, quella scultura. Luoghi di godimento perché sofferenza, così hanno loro insegnato.
Per la musica l’associazione non è immediata, il collegamento viene nascosto da partiture che possono apparire estranee, essere sentite lontane da quanto dovrebbero enunciare. Con la parola scritta men che meno, la finzione non è coadiuvata, spinta da immagini e facilmente può portare al rifiuto e all’ironico sorriso: ma va’, ancora queste storie!
Per il resto è una lama di burro, che agli occhi di oggi appare oltremodo irrancidito dall’incultura e lontananza dei secoli bui: chi mai dovrebbe ancora dar credito a simili favole?
Queste asserzioni si dovrebbe imparare a combatterle con armi parimenti ridicole, come quelle usate dai cervelli grezzi e preistorici, e non con sottili discorsi e articolati ragionamenti. Perché in simili credenze, chiaramente prive di struttura, non c’è niente di logico, di ammissibile, anche per un cervello di piccola-media levatura. Verrà giorno in cui si dirà – quando l’uomo comune diventerà übermensch, non per questo straordinariamente forzuto ma privo di quella dabbenaggine, quell’ingenua, innata e acquisita predisposizione a far sua qualsiasi credenza, che fin qui l’ha indirizzato e guastato –: com’è possibile che si sia potuto andar dietro a tali stupidaggini e dai portatori di questa atrofia cerebrale farsi dirigere e comandare, addirittura far loro decidere sulle scelte individuali e basilari dell’esistenza?
Nelle parole non c’è la tuta mimetica delle immagini che nasconde la filosofia di facciata e la banalità dei concetti, di affermazioni messe lì tanto per... tanto la massa informe e uniforme ci crede, puoi girarla e rigirarla come una cotoletta. Difficile rimanere indifferenti alle illusioni elaborate da certi artisti ma è quanto occorre tenere presente allorché queste immagini vengono viste; con attempata invadenza esse si presentano ed esigono di essere guardate, ste tele rattoppate e screpolate, sti temi da catena di montaggio, ste tavole tarlate, ste figure angelicate; hanno tre, quattro secoli e ai saccenti esperti basta questo per attestarne validità e bellezza. Ma quando mai! Sono forme, materiali, colori, costruzioni che servono a pilotare invenzioni e racconti che nessuno è stato mai in grado di far andare con prove al di là dell’ambito di macabre fantasie nelle quali si trovano; arretratezza veicolano queste immagini, ignoranza, rifiuto del ragionamento e dell’uso della logica. È vero, l’uomo è fatto di ciò che per migliaia di anni s’è costruito con idee sbagliate e gratuite supposizioni, ogni qualvolta la possibilità di liberarsi delle zavorre si è fatta concreta ha messo sul tavolo verde di tutto per giocare barando, da solo o in compagnia, per inventarne altre, indossarne di nuove e nuovamente affondare; Nietzsche, l’ultima bandiera apolide, l’ultima boa, l’ultimo salvataggio possibile nell’übermensch libero da pesi, argie mentali, fantasmi di un tempo arcaico, quando il volo agli umani era precluso e il cielo si popolava dei suoi irrealizzabili desideri. Era ora, finalmente! Libero, per sempre sganciato da qualsiasi idea oltremondana celeste e dedito al rispetto del suolo, della sua terra; concreto, non suolo di macabre invenzioni; la terra, materia di cui egli stesso è fatto e sulla quale si muove e vive. La vita per la vita, senza nessuno scopo, nessun fine; la vita per la vita come per gli alberi, le alghe, gli animali; noi, animali con qualche etto di cervello in più.
Altro che immagini altolocate! Illustrazioni, fumettistici racconti, grate visive inventate per rendere credibili un po’ di favole e lasciare chi le guarda in una riverente, inginocchiata ignoranza.
La parola è sguarnita, non schermata da quella protezione che la figura dà. Il falso nella parola è più evidente, l’inverosimiglianza chiara, immediata.
La parola non ha il travestimento di cui godono le immagini che quella come altre consimili parole illustrano camuffandone la “sostanziale inconsistenza”, rendendone attraente l’insipienza dei significati; i filosofi di rango, quelli con le parole impomatate, quelli di mestiere che parlano, parlano e non concludono niente direbbero: significato, significante, significa, qui ci sarebbe da distinguere. Ma andate a quei dirupi! Voi siete corresponsabili del pantano in cui ci troviamo. Voi che per primi avreste dovuto essere in grado di pensare e comprendere! Filosofi? Ma va’ là!
Caravaggio pittore della realtà? Pittore della falsità, semmai. Seppure risponde al vero come modelli, risponde al falso come finalità. Non si possono dimenticare le caviglie schiacciate, le membra stirate, le carni bruciate, i pensieri cancellati, la scienza tolta di mezzo, l’immaginazione sostituita dalla superstizione – moriremo d’impasti di colore e di vuoti e pieni –; artista della millanteria, dei generatori di paure, del fiuto per l’illogica: il buio riflesso, doppiamente virtuale. E Caravaggio, con le unghie nere e i piedi sporchi dei suoi modelli, era ciò che a quella gente di bianco e porpora vestita e agli inquisitori incaprettati serviva, l’ignoranza in ginocchio sotto favole latine incomprensibili per gli analfabeti e/o male inventate.
Qualcuno, tanti, no, non solo i filosofi di scuola e salotti che giocano con matite e temperini, o semplicemente ciuffuti e barbuti, molto riflettendo, rinverdendo superficiale memoria visiva negli anni di fumi cerebrali messa di canto: Sì, è così, però, certo che quel colore steso da fendenti e mulinelli sì felici e quella luce che si fa strada nel nero oscuro d’ossa (stesso concetto ma usando giri astrusi del nobiliare cumparatu)! È vero, resistere ad impasti zuccherosi di quel tipo, notevolmente abili di una mano visibilmente dotata non è facile. Ma bisogna farlo! Bisogna rifiutarli! Oggi il rifiuto, questo rifiuto è un investimento per il futuro, l’unico comportamento che conviene tenere, l’unico pensiero fruttifero possibile. L’unico non distruttivo, l’unico non servile – quando quest’arte delle fanfaluche ha un dito cerca di prendersi tutto il braccio –, l’unico non oscuro che senza esitare respinga con forza i fasulli, funerei stoppini, che non allontani, anzi chiami a sé le accese luci della ragione e l’illuminazione diffusa degli undici anni di sogni.
Quando l’acqua del mare diventerà puzzolente fango, il suolo sarà colmo di rifiuti tossici, l’aria nebbia di veleni, cosa se ne faranno tutti quanti della loro lunga, canuta, oltremondana peluria e di tre o quattro resuscitate ferite?
7.12.17
Cambiato idea. Ho rifatto tutto. Meglio, ho cominciato a rifare tutto; non solo matita e pastello su carta da pacchi marrone e cartone grigio ma olio su pluriball. Dodici i pastelli già realizzati che oggi, nel settimo giorno di dicembre dell’anno 117, sto cominciando a rifare; in eguale misura, più o meno.
Da un unico pezzo di pluriball di una cinquantina di centimetri di lunghezza ne ho tagliati due di uguale (spaccando la parola potevo scrivere pari ma il primo lemma è quello che preferisco, incurvata la prua con una imprevista virata) u – quindi – guale dimensione, cm 23,5x16,5, su uno dei due ho iniziato a rifare il primo disegno che qui sta per diventare dipinto – non seguendo l’ordine cronologico dei pastelli ma utilizzando il primo capitato sottomano – a dir la verità la scelta è caduta su quello che presentava, affinché la trasposizione per trasparenza mi venisse facilitata, marcata la parte inferiore e fissa dell’intero gruppo di disegni: la U che divide le due metà del capitello, che unisce i due emisferi del cervello. Questo disegno ha come elemento variabile il tridente, e ovviamente è dedicato a Nettuno, il dio mitologico del mare. Sta a me ora prendere il largo insieme ai punti neri della U che hanno la stessa dimensione di una numerosa e regolare distesa di bolle d’aria. Bolle, non balle.
Le bolle di Capraia; Balla per me, balla, balla, prima Roma poi Arezzo, quarantanni fa, circa, quasi; balla che ti passa; vuoi ballare con me? Balla coi lupi; non smettete di ballare graziose giovanette; danza la fiamma di Estia, solo una foglia d’alloro per Apollo, il viso felino di Pan, lo scudo con due occhi e un serpente di Atena, il circo per Era, nervi e vasi sanguigni di una foglia di vite per Dioniso, la coppia di fulmini di Zeus, no, la testa d’aquila, forse, vedrò. L’arco e la freccia d’argento di Artemide, Eros di frecce ne ha due, un vaso Psiche; incudine e martello a Efesto, egli farà la spada ad Ares. La pecten per Afrodite del pastello, nell’olio è diventata murex; le ali bianco alchidico di titanio dei calzari di Ermete; di Ade ho scritto il nome, ho diviso in due parti il tempo di Persefone, una il doppio dell’altra, una la metà dell’altra; navigando con Demetra sul biondo mare, tra il papavero e la spiga la scelta l’ha avuta il cane nero.
I primi pastelli sono della seconda metà di agosto, sempre, naturalmente, dell’anno 117.
12 disegni e, penso, altrettanti dipinti verranno tenuti in piedi da una tenda di mistolino e quattro gambe di Arlecchino, due ancorate a terra e due danzanti per aria. Ironico Dioniso, e il suo tragico e rigido piano-tavolo verticale da lavoro.
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