Il diario di Mariagrazia Pontorno in viaggio su una nave cargo per il progetto Everything I Know
La terza e ultima tappa, in esclusiva su Artribune, del viaggio che Mariagrazia Pontorno ha compiuto su una nave cargo verso il Brasile. Il progetto si chiama Everything I know ed è a cura di Elena Giulia Abbiatici e Silviana Vassallo con il sostegno di Ines Musumeci Greco
Si chiama Everything I know e omaggia il viaggio di Leopoldina d’Austria, amante delle scienze, verso il Brasile, il progetto di Mariagrazia Pontorno, già raccontato da Artribune, a cura di Elena Giulia Abbiatici e Silviana Vassallo con il sostegno di Ines Musumeci Greco. L’artista sta viaggiando, idealmente, in compagnia di artisti ed intellettuali su una nave cargo che la porterà in Sud America. C’è inoltre un sito web che racconta il percorso ed anche un diario di bordo per documentare l’impresa, che culmina in mostre, talk, dibattiti a Rio de Janeiro. Artribune pubblica in esclusiva il diario di questo viaggio. Ecco la terza tappa e ultima, per la prima cliccate qui e per la seconda qui.
14 GENNAIO 2018: AL PORTO DI DAKAR
Altra giornata trascorsa al porto di Dakar, dal ponte vedo i container che si posano al suolo con un rumore sordo e poi una nuvola di sabbia in risposta. Sarà così tutto il giorno.
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A cena Christine e Philippe raccontano di quando in Mongolia si fermarono a trascorrere la notte in una steppa deserta, che al mattino era già diventata un villaggio di tende. I nomadi infatti arrivano e scompaiono senza preavviso, piantano le loro tende sulla terra, solo il capo ha diritto a tappeti, si nutrono di carne bollita e conserve. Quel mese Christine sognò più volte di mangiare frutta e verdura. Un pomeriggio un uomo si diresse dall’accampamento alla loro Jeep, e quando li vide disegnò col pollice una linea sulla gola, che in Mongolia non significa sgozzare, bensì offrire da bere: non lo sapevano, e appena lo scoprirono furono ben felici di bere una disgustosa grappa di latte di cavalla.
15 GENNAIO 2018: DIREZIONE BAJUL
Al mattino la nave è ripartita da Dakar direzione Banjul, in Gambia, al confine col Senegal. Il mare è calmissimo, tutto chiaro e silenzioso. Le tappe africane sono sempre complicate, perché i porti sono meno organizzati e le operazioni di carico-scarico merci richiedono più tempo. Stiamo andando ad otto nodi, molto lenti, perché potremo entrare a Banjul solo con l’alta marea, in serata.
Ho chiesto al capitano se una volta nell’Atlantico sarà possibile issare tutte le bandiere insieme, come segnale di cooperazione tra paesi, nello spirito del viaggio di Leopoldina. Mi ha detto di sì, spiegandomi che ciò che voglio fare si chiama Gran Pavese, in navigazione tutto ha un nome.
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Nel pomeriggio con Silvana abbiamo organizzato una visita guidata della cabina invitando i passeggeri. Il cuoco ci ha cucinato dei rustici con filetti di acciuga, che abbiamo offerto insieme a del vino bianco e dei biscotti. Un vero e proprio opening. Quando nel pomeriggio sono andata in cucina a prendere i rustici, le pentole erano già sul fuoco. Sebastiano si sveglia all’alba per garantire a tutti pranzo e cena, è un uomo di grande cuore, l’idea di preparare qualcosa per la cabina-visit è stata sua.
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La sera arriviamo a Banjul ma restiamo all’ancora in attesa di entrare al porto la mattina successiva.
16 GENNAIO 2018: TAPPA IN GAMBIA
La mattina alle 9 la nave è ancora ormeggiata a largo, stiamo aspettando che un altro cargo ci lasci il posto sulla banchina. Siamo comunque molto vicini alla costa, dal ponte posso scorgere il paesaggio. Sebbene si tratti della capitale del Gambia la città è molto piccola, priva di un piano urbanistico, si vedono degli edifici bianchi mescolati a zone di jungla. C’è poi una piccola isola collegata alla terraferma da un traghetto.
Alle 12 finalmente entriamo al porto, e l’equipaggio inizia subito le operazioni di scarico, si prevedono almeno un paio di giorni. In Africa si trasportano macchine usate, quasi rottami, che spesso non partono neanche, le uniche che possono permettersi: abbiamo trasformato il continente da cui tutti proveniamo nella discarica dell’Occidente. La sera precedente il primo ingegnere di macchina diceva che se non si vede l’Africa non si può capire la vita. Qui semplicemente non esiste il superfluo, ad esempio c’è il venditore di scarpe usate che la notte poggia un cartone sulla sua merce e ci dorme sopra.
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Il pomeriggio Alfredo riesce a procurarmi una scheda telefonica, mi arrivano contemporaneamente più di 200 notifiche whatsapp, scopro così da un messaggio di Valentino Catricalà di risultare tra i vincitori di Arte sui Cammini, a pranzo offro vino rosso e brindiamo, eppure qui in mezzo al mare è così strano pensare ai sentieri di Rieti e alle radici dorate del progetto. La sera presento in sala comune i lavori più recenti alla presenza dei passeggeri, che mi hanno portato in dono una tavoletta di cioccolata con un fiocco e la foto di un albero di felce, simbolo della Nuova Zelanda.
17 GENNAIO 2018: FELCI COME FRATTALI
La mattina preparo le domande per l’intervista da fare al capitano durante la traversata atlantica. Poi leggo il contributo di Valerio Eletti sui sistemi complessi e i frattali, usati in computer graphics per il mare, gli alberi, le nuvole. Pure la felce è un frattale.
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Passeggio sul ponte, c’è l’aria fresca e il profumo dolce dell’Africa.
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Alcuni passeggeri sono usciti insieme a una guida per fare un tour della città. Dopo cena mi ritrovo seduta sulla sdraio a guardare il tramonto accanto a Kirsten, una donna tedesca con cui ho parlato poche volte, che mi racconta la giornata a Banjul. Il Ghana è un paese poverissimo, che fino a metà anni novanta non aveva neanche ospedali, così per strada è facile incontrare uomini e donne mutilati: non è stata la guerra ma il modo più veloce per risolvere patologie che potevano essere curate altrimenti, era pratica diffusa recidere persino gli arti rotti. In realtà ancora oggi la sanità e l’istruzione sono appannaggio di pochissimi, tutte le scuole, anche quelle dell’infanzia, sono a pagamento, e qui nessuno lavora. Ci sono (ovvio) enclaves di bianchi ricchi, Kirsten ha fatto una passeggiata sulla spiaggia gestita da uno svizzero, sui lettini c’erano donne inglesi di mezza età con a fianco aitanti ragazzi del luogo. Il turismo sessuale è un’altra fonte di reddito. Il sole è tramontato, si alza l’umidità e in lontananza si scorge il fumo di un incendio, che arriva sino alle nostre narici.
18 GENNAIO 2018: IL CAPITANO JENS MUNK
Altro giorno di lavoro a Banjul, in Africa il tempo della nave si dilata ulteriormente ed ha pure un nome: African Time, che significa imprevedibilità, attesa, contrattempi. Per esempio uno dei camionisti locali, ad un certo punto, è uscito dal mezzo ed è andato via, nessuno sa dove. È un comportamento frequente, che per evitare intoppi peggiori viene tollerato e fa parte dello schedule. Sto leggendo il Capitano Jens Munk, un vero capolavoro, per descrizione dei luoghi, accuratezza dei dettagli storici, psicologia del personaggio. È la storia di un uomo di mare di fine XVI sec. che dopo varie peripezie finisce in Brasile, alcune pagine strazianti descrivono la tratta degli schiavi. L’autore, Thorkild Hansen, ha dedicato anche una trilogia al tema. Guardando questa povera gente che lavora per due soldi, a cui abbiamo tolto tutto, penso che, come dice il libro, l’uomo bianco ha sviluppato una normale attitudine alla prepotenza, al netto dei sensi di colpa.
19 GENNAIO 2018: VERSO FREETOWN
In mattinata siamo salpati per FreeTown, 30 ore di navigazione da Banjul. Da programma saremmo dovuti arrivare a Rio dopodomani, invece abbiamo accumulato più di una settimana di ritardo. Nel pomeriggio è previsto in sala comune un talk su Leopoldina, alla presenza dei passeggeri. In particolare Christine e Gaby hanno letto il libro di Gloria Kaiser insieme a Silvana, e io come sempre durante i laboratori indosso il foulard di Sara Enrico. La discussione è stata molto interessante, Franz, il marito di Gaby, si è reso disponibile a documentare con la sua reflex le attività svolte sulla nave. Si è parlato di Leopoldina come donna, madre, donna di stato. Del suo dramma privato e della sua gloria pubblica. Si sono toccati vari temi, tra cui lo sguardo illuminato sebbene europeo che aveva sul Brasile (allora il solo possibile), la questione dell’identità territoriale, l’intercultura, l’apporto dell’antropologia nel delineare tali categorie.
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La sera il capitano mi informa che resteremo attraccati due giorni all’ancora prima di poter entrare a FreeTown. La notizia mi fa un po’ tremare le gambe, ciò mette a repentaglio gli appuntamenti che abbiamo a Rio, e inoltre questa vita scandita in maniera così rigida da orari di sveglia, pasti, attese, disciplina e limitazioni di spazio sembra una variante di The Artist is Present.
20 GENNAIO 2018: TEMPI STRETTI SENZA SOLUZIONI
Sono molto preoccupata dei tempi stretti, ma non ci sono soluzioni, alla fine lo spirito di questo viaggio è dispiegare tutte le virtù cardinali. Il primo ufficiale per distrarmi mi porta del cordino da marinaio suggerendomi di fare un lavoro. In modo silenzioso e naturale la pratica dell’arte contemporanea si è manifestata.
21 GENNAIO 2018: IN ATTESA DI ARRIVARE A FREETOWN
Altra giornata all’ancora in attesa di entrare al porto di FreeTown. Con Silvana facciamo un check di suono sul ponte superiore collegando il laptop a un altoparlante via bluetooth, per fortuna in molti momenti è lei a documentare ciò che avviene, con uno sguardo sicuro su ciò che è importante ricordare. Una volta sull’Atlantico, quando la navigazione sarà placida, il cielo limpido e tutto stelle, porteremo le sdraio su e organizzeremo un ascolto della playlist siderale di Rosa Ciacci, accompagnato da un suo testo guida, tradotto in questi giorni da Silvana con la collaborazione di Gaby, che nella sua vita è stata traduttrice, e si è prestata volentieri a partecipare.
22 GENNAIO 2018: PEDAGOGIA DEGLI OPPRESSI
La mattina presto entriamo al porto, prima di attraccare ci raggiunge una barchetta con due ispettori. FreeTown si arrampica su una collina, ci sono macchie di verde e segni architettonici più decisi, palazzi molto alti e case. Però anche qui si avverte un senso di totale sconfitta e povertà, a cominciare dall’aria, che è grigia e irrespirabile. Solido come una superficie traslucida, questo pulviscolo resterà in sospensione l’intera giornata, a filtrare la nostra percezione del panorama. Sto leggendo Pedagogia degli oppressi di Paolo Freire, suggeritomi da Pietro Gaglianò, un testo molto duro e doloroso, specialmente se alzando gli occhi il paesaggio non è la rassicurante e magnifica Roma, ma la discarica umana e culturale di FreeTown. Fuori è afoso, e i lavori di carico e scarico vanno avanti a un ritmo incessante, la sera il water deck è colmo di container rossi.
23 GENNAIO 2018: BRASILE, ARRIVIAMO
Finalmente abbiamo preso l’Atlantico in direzione del Brasile, una settimana continua di navigazione senza più soste. Il comandante mi ha detto che qualche anno fa Milo Manara ha fatto la stessa tratta scendendo però a Montevideo, dove aveva una mostra, regalandogli un disegno sul passaggio all’Equatore.
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Il pomeriggio è prevista la performance Cesare Pietroiusti, che mi ha consegnato un pensiero non funzionale da sottoporre ad equipaggio e passeggeri: in un determinato giorno fai l’elenco di tutto quello che non riesci a fare: micro-fallimenti, errori, atti mancati. Tutte le cose che si verificano in maniera difforme rispetto alla tua intenzione. Le osservazioni fatte da chi ha partecipato sono di carattere pratico, e penso che questo abbia molto senso in un tale contesto, dove tutto è ridotto all’essenziale e il tema del giorno è cosa si mangerà a pranzo o a cena. C’è una differenza enorme tra chi fa questa esperienza per un tempo limitato e chi per lavoro, e se nel nostro immaginario c’è il mare che respira, l’orizzonte infinito, l’avventura e la scoperta, per un marittimo tali aspetti non sono contemplati. Le pressioni, le responsabilità e la fatica sono tali che la percezione del viaggio assume altre tonalità.
24 GENNAIO 2018: INTERVISTA AL CAPITANO
Oggi il mare sembra un drappo di seta cangiante lievemente increspato, è una superficie specchiante, non ho mai visto una cosa del genere. La nave solca in silenzio questo fluido blu primario. Ho chiamato subito Silvana, c’era qualcosa di miracoloso in questa sospensione di vento e onde.
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Sulla nave fervono i lavori di manutenzione, ogni giornata di sole è utile per riportare in equilibrio la guerra perenne di salsedine e smalti speciali tra il mare e la nave.
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Nel pomeriggio ho intervistato il capitano, che ancora una volta mi ha dato una lezione di umanità. La navigazione per lui è un lavoro e il mare va rispettato, perché a sfidarlo ci si perde sempre. A spingerlo verso questa carriera non è stato alcun sogno o passione, ma solo la concretezza di un impiego, su suggerimento del padre. Eppure, nella sua saggezza e centratura si individuano le direttrici che portano al ruolo che riveste, penso che la vita gli abbia sorriso, perché senza averlo desiderato fa il lavoro che più si addice alle sue predisposizioni.
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Alle due del mattino abbiamo superato la linea dell’Equatore, e con Silvana abbiamo brindato con un bicchiere di bianco e della pizza dello stesso colore del vino. Clèment in Nuvole parla di un battesimo ricevuto a bordo, con tanto di nome di pesce, Delphinus. Mentre Raddi, nel suo diario di bordo del 1817, parla di un Nettuno nudo arrivato in barca non appena superata la Linea.
25 GENNAIO 2018: LA PERFORMANCE
Di mattina ha avuto luogo la performance Cime Ventose, con l’aiuto del primo ufficiale e alla presenza dei passeggeri e di alcuni membri dell’equipaggio. Il vento soffiava forte, abbiamo prima annodato tra loro le bandiere dei singoli paesi, fissandone le cime a prua, e infine le abbiamo issate. Per una misteriosa alchimia tutti erano contenti, e guardavano le bandiere sventolare con lo stesso spirito di libertà e di coesione che le teneva unite e libere nell’aria. Uno dei passeggeri svizzeri ha fatto notare che mancava la bandiera del suo paese, in effetti è vero, ma del resto la Svizzera non ha il mare, e quindi a bordo non c’è. Se si dovesse leggere il peso di uno stato dalle bandiere presenti sul Gran Pavese, gli equilibri mondiali ne uscirebbero sconvolti: a prevalere è l’ Africa.
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Il pomeriggio veniamo convocati nella sala comune, poco dopo fa il suo ingresso una specie di processione di ufficiali, con alla testa il capitano, seguito dal primo di macchina che suona il gong, e infine Nettuno con barba bianca sapientemente ricavata da un mocio, corona e tridente in stagnola, e una tunica bianca ottenuta da un lenzuolo, su cui l’allievo ufficiale si è divertito a dipingere sopra un mix di simboli divini tra cui stelle, luna, triangoli occhiuti. Alfredo è il coppiere di Nettuno e tiene tra le mani una ciotola che odora di cioccolata e un pennello trafugato dal magazzino degli attrezzi. Nettuno ci chiama per nome a turno, e dopo averci fatto pronunciare cinque volte la formula che consente l’accesso al mondo marino “yo soy marinero”, impartisce il battesimo spennellandoci il volto di pozione magica, assegnandoci un nome di pesce, io sono Sardina. Ma la giornata non è ancora finita, come in Clément è stato organizzato un barbecue per salutare il passaggio all’Equatore, e con l’occasione ho messo su la playlist filologica di musica brasiliana datami da Davide Rodilosso. È l’incredibile potere evocativo di una linea immaginaria.
26 GENNAIO 2018: METROPOLIS
Con il terzo ufficiale proviamo a ricostruire la rotta di Leopoldina su due carte nautiche usando come fonte il diario di Raddi, decidiamo di usare la matita rossa per il viaggio del 1817 e la blu per il nostro.
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Il pomeriggio visitiamo la sala macchine, si trova al deck 7, ci accompagna un allievo. Uscendo dall’ascensore prima ancora del rumore si avvertono le vibrazioni, la temperatura si è impennata. Percorriamo un mezzanino che si affaccia direttamente sul gigantesco cuore pulsante della nave, una teoria di pistoni che si muovono ritmicamente per produrne l’intero fabbisogno energetico. Incontriamo il direttore e il primo ufficiale di macchina, che ci mostrano la sala controlli, l’unica climatizzata, che tanto somiglia alle grandi sale di calcolo vintage, piena di terminali e pulsanti luminosi. Dopo ci danno dei tappi per le orecchie: il rumore resta comunque fortissimo, come le vibrazioni, il calore è insopportabile, raggiunge picchi di 46 gradi, non c’è luce, gli ufficiali e gli addetti alle macchine indossano una tuta blu, il richiamo a Metropolis e alla Prima Cantica è d’obbligo. L’ingegnere ci spiega con passione e dovizia di particolari il funzionamento di ogni cosa, è tutto un tripudio di componenti meccaniche utili per desalinizzare, riscaldare e raffreddare la nave, fornire energia elettrica e forza motrice. Il motore si estende per cinque metri in altezza, scendiamo ancora diversi livelli, ancora tubi, pistoni, impianti, ventole, meccanismi di ogni foggia: il trionfo del pensiero applicato, la risposta artificiale dell’uomo agli ostacoli posti dalla natura. Ripassando dalla sala controlli noto una immagine di San Francesco di Paola attaccata su uno dei monitor, è il protettore dei navigatori mi dice l’ingegnere, proprietario dell’immaginetta e devoto del Santo. Forse è il caldo, ma questo contrasto provoca in me una vertigine che arriva fino al centro del mondo, cioè agli inferi.
27 GENNAIO 2018: LA PLAYLIST DI ROSA CIACCI
Tra qualche giorno avvisteremo le coste del Brasile e per oggi è in programma l’ultimo evento del progetto, un ascolto della playlist siderale di Rosa Ciacci sotto le stelle. Come prima cosa mi reco dal comandante per interpellare insieme gli auspici del suo software meteo Bon Voyage, che prevede temperatura mite, poco vento e mancanza di rovesci. Con Silvana abbiamo stampato la versione italiana e inglese del magnifico testo di Rosa, Sebastiano preparerà dei bigné, i marinai filippini ci prestano la loro cassa con altoparlante integrato, che usano per il karaoke, Alfredo porta sul ponte sedie, sdraio e un tavolo per il rinfresco. Tutto l’equipaggio è stato invitato ma parteciperanno solo coloro a cui non compete il turno notturno. Al tramonto collego le casse al computer. La serata è semplicemente perfetta, si vede Orione, la cui cintura punta Sirio, la luna si nasconde dietro le nuvole e fa capolino riflettendosi sulla distesa d’acqua nera. La musica della playlist si diffonde sul ponte, gli invitati arrivano, c’è qualcosa di magnetico che trattiene tutti fino a notte fonda. Il gigante di acciaio si muove lentamente, seminando nell’oceano buio le note di Brian Eno, David Bowie, Pink Floyd, Morphine, Balmorhea, John Coltrane, Monolake, Air, Wilco, Nick Cave, Joy Division, Enrico Rava, Portishead, Radiohead, Lou Reed, Moby, Ulan Bator, con cui siamo usciti a rivedere le stelle.
28 GENNAIO 2018: INPRATICA
Stamattina io e Silvana ci siamo alzate con lo stesso stato d’animo, felicità per come tutto si è svolto ieri: una speciale alchimia ha unito le stelle ai passeggeri, l’equipaggio virtuale e quello della Grande America. Portare l’arte fuori da un tracciato sicuro e blindato, come quello delle gallerie e del sistema, e proporre contenuti e visioni in contesti atipici e a un pubblico nuovo, pronto ad accoglierli con curiosità reale, è ciò che sta riempiendo di senso il lavoro svolto su questa città galleggiante. Christian Caliandro spiega bene questo concetto in Essere-presenti-scomparendo, il suo contributo per Everything I Know, una raccolta di articoli pubblicati sulla rubrica Inpratica ospitata da Artribune: l’arte che si diluisce nella vita, e che scomparendo acquista forza e senso. La sera Alfredo mi suggerisce di aggiungere alla playlist una canzone neomelodica di Tony Colombo, Sott’e stelle, potrei essere più contenta di come tutto si sta svolgendo?
29 GENNAIO 2018: APPUNTAMENTO SALTATO
Attraverso le vetrate del bridge il mare appare sempre più docile che dal ponte. La nave avanza scivolando sull’acqua, il terzo ufficiale segue con attenzione ogni aspetto della navigazione, ogni tanto lui o il marinaio di turno avvistano qualcosa ad occhio nudo e prendono il cannocchiale per sincerarsene e capire meglio. Tutto si svolge in un silenzio solenne, che viene rotto solo se è davvero necessario: una comunicazione dalla sala macchine, l’ingresso del capitano, uno scambio di pareri tecnici. Intorno alle 11 avvistiamo la costa, è la prima volta dopo una settimana di navigazione che si scorge la terra. Inizialmente si confonde con l’orizzonte e le nuvole, in un paesaggio atmosferico leonardesco. L’Atlantico ormai è quasi tutto a poppa, e a prua c’è il Nuovo Mondo. Chissà come si sarà sentita Leopoldina, ci penso spesso, una ragazza di neanche vent’anni, a bordo di una nave per due mesi e mezzo, in balìa del mare e di un destino a cui si era affidata senza alcuna resistenza. In serata buttiamo l’ancora a largo di Vitoria, come al solito c’è da attendere, non potremo entrare al porto che il 30 mattina: a questo punto è chiaro che non arriverò in tempo per il meeting con Graziela Martine e Joao Orleans, erede diretto di Leopoldina. Decido così di preparare un visual loogbook per dare un’idea delle attività svolte sulla nave, e di affidarmi anch’io al destino.
30 GENNAIO 2018: APPRODO IN PORTO
L’approdo in un porto è un rituale che inizia a largo della costa con le comunicazioni radio di coordinate e posizioni. Le navi in attesa del turno di entrata sono tante, e a vederle sembrano raduni evanescenti di cetacei. Una volta che le autorità portuali danno il via e forniscono l’orario di ingresso si attende il pilota, che guiderà la nave fino alla banchina. Il suo arrivo è la scena di un film d’azione, e prevede manovre rischiose, che capita possano costare persino la vita. Il pilota arriva in motoscafo, o in elicottero, e si lancia sulla nave in movimento esattamente come 007, aggrappandosi a una scaletta ed entrando da uno dei ponti a filo d’acqua. Dopo pochi minuti è sul bridge, con le mani sul timone, sicuro nel condurre la nave in acque che conosce come le sue tasche. A volte regala il suo cappello all’ufficiale di turno, c’è chi fa la collezione. Le ultime manovre sono dirette dal comandante, che dalla aletta laterale situata all’esterno prende le misure con un solo sguardo, in virtù della sua esperienza, e le comunica ad alta voce all’allievo di coperta, che come nel gioco del telegramma le ripete al pilota dentro la cabina, e così la nave viene parcheggiata al modo di una utilitaria.
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Quando dopo il breve riposo pomeridiano guardo fuori dall’oblò non credo ai miei occhi, non c’è più il mare, ma delle sopraelevate intasate dal traffico, stupita e allarmata sveglio Silvana, al grido di: “Silvana, guarda, ci sono le macchine”. Così tanti giorni di mare, cielo, brezza e silenzio hanno quasi azzerato l’inquinamento visivo e mentale: sulla nave non puoi fuggire da niente, sei lì in balìa delle onde e di stati emotivi amplificati dall’assenza di ogni rumore di fondo. Sei esattamente tu.
Tanto l’Africa è rarefatta e incorporea, quanto il Sud America saturo e in alta definizione. I colori del porto sono nitidi e squillanti, tutto giallo, arancio, azzurro. Il ponte di acciaio si abbassa, il primo ufficiale fa capolino, la nostra fortezza è di nuovo connessa con la terraferma. Ripartiremo di notte alla volta di Rio.
31 GENNAIO 2018: ULTIMO GIORNO DI NAVIGAZIONE
Oggi è l’ultimo giorno di navigazione, è così lontano quel primo pensiero di tanti anni fa, che mi attraversò in forma di desiderio quando sentii parlare di Leopoldina e della sua spedizione. Arriva il momento dei saluti e di lasciare la nave, che sino ad ora mi ha cullato e protetto come una madre, insegnandomi amore e rispetto per il mare, padre severo e autorevole: in termini archetipici, nessuna illazione gender si intende. Sono così piena di emozioni che resto incollata al letto a pancia in giù, con le dita in tensione sulle lenzuola. Non mi piacciono i finali, lieti o meno. Dovrò salutare tutti, passeggeri, equipaggio, nave e trovare il coraggio per uscire da questo ventre. Realizzo che è a tutti gli effetti una nascita, ho paura di lasciare un universo piccolo, chiuso, sicuro, e al contempo ho nostalgia del futuro.
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Alle 18.00 entriamo al porto, è spettacolare, i monti di Rio, familiari come i grattacieli di New York, ma anche così distanti perché tondi e di un verde squillante sconosciuto al dolce Mediterraneo . Il Corcovado è coperto dalle nuvole, che a tratti si spostano svelando il Cristo. Due secoli fa Leopoldina entrava nella baia, non sapeva che ad attenderla c’era il destino di un intero popolo e una vita infernale. Era piena di speranze. Come lei oggi sono vestita di bianco e vedo lo stesso paesaggio, porto con me pensieri, contenuti e la voglia di fare del mio meglio, e per fortuna non sono qui per sposarmi.
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Alle 20.00 le autorità portuali vengono a prelevarci dalla nave per condurci in macchina fuori dalla zona cargo. Abbracciamo forte i nostri compagni di viaggio, dicendoci arrivederci. Il capitano mi stringe la mano, lo ringrazio per la disponibilità e la grande apertura, lui mi ringrazia a sua volta per aver portato sulla nave una esperienza così lontana dalle loro vite. Ciao Loepoldina, se ne va la luce dalla Grande America, mi dicono gli ufficiali, e io sorrido divertita. Quando con Silvana attraversiamo il ponte e mettiamo piede sulla banchina, toccando terra, mi sento chiamare dall’alto, sono i passeggeri che da poppa ci salutano. Dalla loro prospettiva diventiamo due puntini che presto scompaiono nel brulichio del porto.
1 FEBBRAIO 2018: MI MANCA LA NAVE
La prima notte sulla terraferma è straniante, mi trovo a Copacabana, nel confortevole letto di un confortevole appartamento. Sono a Rio de Janeiro. Faccio fatica a prendere sonno, non c’è il dondolio della nave, così per reazione mi dondola la testa. Dopo qualche ora mi sveglio bruscamente, e per alcuni minuti ho l’impressione di essere sulla nave e che le finestre siano degli oblò, e nel dormiveglia non capisco come mai tutto sia così fermo.
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La mattina è previsto un meeting al Jardim Botanico, con gli organizzatori della mostra e la direzione dell’Orto e del Museu do Meio Ambiente. Sono tutti entusiasti del progetto, Joao Orleans, erede di Leopoldina, volerà lunedì a Rio apposta per incontrarmi di persona. Resto incredula per l’accoglienza e la totale disponibilità dimostrata. Mi dicono di ragionare su un’idea di mostra che includa non solo gli spazi interni, ma anche i padiglioni e i sentieri. Visitiamo con una macchina elettrica l’intero Jardim Botanico, mi sembra così irreale, fino a poche ore prima il colore dominante era il blu, adesso è il verde. Il Jardim è lussureggiante, sontuoso, la vegetazione non è a misura d’uomo (come del resto tutto il Nuovo Mondo), altissima e sacra incombe su di noi.
Di ritorno il taxi percorre l’intero lungo mare, da Ipanema a Copacabana l’iconica pavimentazione di Burle Marx tutta onde fa da contrappunto ai movimenti dell’Oceano. In lontananza sull’orizzonte si vedono le navi in attesa di attracco, come flotte fantasma. La prospettiva si è ribaltata, dalla nave al taxi, dal mare alla terra, da un continente all’altro attraverso i secoli. È stato un viaggio magnifico.
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