Architetti d’Italia. Bruno Zevi, il narratore
Bruno Zevi è il protagonista del nuovo capitolo della storia architettonica italiana narrata da Luigi Prestinenza Puglisi.
Bruno Zevi, a differenza degli altri storici, ha prodotto un’appassionante storia dell’architettura. Perché forse è stato il solo che l’ha vista come una storia della libertà costruita attraverso l’emancipazione dello spazio da vincoli, dogmi e incrostazioni retoriche di ogni tipo.
È facile intravedere in questo atteggiamento una perenne apertura di credito alle avanguardie, dall’informale al decostruttivismo, fenomeni per i quali Zevi ebbe sicuramente attenzione. Ma così si fuorvierebbe il nucleo concettuale della sua narrazione che parte da molto lontano. E difatti i protagonisti dell’architettura di Zevi hanno spesso molto poco a che spartire con l’avanguardia. A meno che non vogliamo considerare avanguardisti gli amatissimi Frank Lloyd Wright, Filippo Brunelleschi, Andrea Palladio, Michelangelo Buonarroti, Francesco Borromini. Vi sono dei passi illuminanti di Zevi sull’architettura delle caverne, con le quali ovviamente il concetto di avanguardia non ha nulla a che spartire, e, soprattutto, le riflessioni sulla concezione ebraica dello spazio, raccolte in un libro poco conosciuto della Giuntina, adesso in fase di ristampa.
La concezione ebraica, per Zevi, si contrappone a quella cattolica tutta tesa a privilegiare la dimensione spaziale rispetto a quella temporale.
È uno dei punti più delicati della sua riflessione: la cultura cattolica ha paura del divenire, della caducità della storia e per questo motivo disegna costruzioni che alludono a una perfezione che azzera il mutamento: quindi statiche, simmetriche, monumentali. La cultura ebraica evita di cadere in questa trappola mentale e privilegia la dimensione temporale, pensando configurazioni aperte e flessibili alle esigenze di chi tali spazi dovrà abitare.
Non è difficile intuire, a questo punto, che la rilettura che Zevi compie della storia dell’architettura ha poco a che fare con l’inseguimento della novità a tutti i costi tipica delle avanguardie storiche del Novecento, ma è anzi il racconto di una storia, appunto della libertà, che va dalle origini dell’uomo, dalle sue prime forme di insediamento, sino ai giorni nostri, passando certo anche attraverso le stesse avanguardie che però sono solo una parte, e non sempre la più interessante, di un cammino incessante. Dove occorre giornalmente confrontarsi con l’avversario: l’idea che esista una verità statica, immobile, data una volta per tutte.
Un lettore avvertito noterà subito che questa storia ha tutte le caratteristiche di una grande narrazione, per usare una frase abusata di Lyotard, della modernità. Più precisamente di una continua e incessante ricerca di una modernità in perenne divenire che si costruisce crisi dopo crisi (sarebbe superfluo a questo punto ricordare che Zevi citava, facendola idealmente propria, la definizione di Jean Baudrillard che descriveva la modernità come la trasformazione della crisi in valore).
UNA NARRAZIONE IMPONENTE
Non credo ci sia mai stato nella storia della critica dell’architettura uno storico che abbia avuto la forza, la statura e il talento per costruire una narrazione così imponente: capace di legare con un filo rosso l’architettura dalla preistoria ai giorni nostri. Ma, come succede per tutte le grandi narrazioni, ampie parti del sistema tengono poco a una analisi disincantata.
A partire dall’idea di una concezione ebraica dello spazio che si contrappone a quella cattolica. Che è contraddetta dal fatto che i grandi eroi dello spazio zeviano spesso sono ferventi cristiani, ossequiosi di Santa Madre Chiesa, anche se tormentati come tutti i grandi protagonisti della storia del cattolicesimo.
Posto di fronte a queste evidenze, Zevi è costretto ad avanzare distinguo e ipotesi non sempre convincenti. Che nulla tolgono alla bellezza della costruzione intellettuale ma che pongono i discorsi più lungo l’asse della sovrainterpretazione che dell’interpretazione: raccontano cioè più del critico che dell’autore.
A rendere ancora più affascinante il discorso zeviano è la sua ricaduta politica. Dire che la storia è storia della libertà implica agganciare l’architettura alla storia politica. Vedere ogni segno linguistico in relazione a un processo di emancipazione dell’uomo. Zevi è stato un personaggio sempre impegnato in prima linea; ha sofferto le persecuzioni razziali tanto da dover scappare prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti; è stato impegnato prima nel partito d’Azione poi con i socialisti e i radicali; ha lottato per tutte le grandi battaglie di libertà avvenute nel nostro Paese. Per lui l’architettura al di fuori di queste vicende è un non senso, uno stupido gioco formalista. E i grandi architetti, secondo questa prospettiva, non possono essere che grandi uomini coinvolti, ovviamente in vario modo, nella incessante lotta per la libertà che caratterizza il divenire storico.
Credo che se Zevi ci ha appassionato e ci appassiona è proprio perché dal suo racconto emergono personalità geniali e onesti professionisti che, attraverso le cronache e la storia, ci hanno reso migliori. Da qui, però, un’altra difficoltà: l’incapacità di ammettere che grandi architetti potessero coltivare visioni politiche non in linea con la storia della libertà. E due conseguenti scappatoie, a mio avviso poco convincenti: la prima messa a punto con Giuseppe Terragni e la seconda con Luigi Moretti. Nella prima Zevi giustifica la grandezza del personaggio minimizzando la sua adesione ‒ che fu convinta e senza ripensamenti ‒ al fascismo, passandolo come un “cospiratore manierista” un sabotatore dell’ideologia del regime dal suo interno. Nel secondo caso evitando, sia pure tra distinguo, di ammettere la grandezza del personaggio, individuando nelle sue opere germi di estetismo e di autoritarismo, che certamente ci sono ma non maggiori di altri personaggi che, invece, per meriti, per così dire politici, hanno superato l’esame.
Chi se ne importa, il racconto zeviano è tanto avvincente da rendere anche la sua soprascrittura, e ci sono tratti in cui è forzata, del tutto accettabile. D’altra parte, le interpretazioni di altri storici hanno non minori difetti di parzialità e sono sicuramente meno affascinanti, avvincenti e coinvolgenti.
MODERNITÀ E CRISI
Se la modernità è per Zevi generata da continue crisi, non è che per questo il pensiero critico debba essere frammentario. Tutt’altro. Ci sono pochi scrittori così coerenti e sistematici. Anzi, è a mio avviso possibile leggere l’intera opera di Zevi come un tutto organico, ovviamente con differenze inevitabili tra opere scritte nell’arco di oltre mezzo secolo di incessante attività.
Uno dei punti centrali di questo corpus organico è il tema del linguaggio. Se l’architettura per Zevi è lo spazio, noi la capiamo perché la scriviamo e la leggiamo trattandola appunto come un linguaggio. È questo uno dei punti di maggiore criticità dell’impianto concettuale. Come si può conciliare la libertà dell’azione con la costrizione di un codice? Per rispondere a questa domanda Zevi inventa sette invariati del linguaggio contemporaneo. Che non sono regole ma anti-regole. Quindi, in un certo senso, non sono costrittive come potrebbero essere quelle di un codice. Ci dicono cosa gli architetti non devono fare per essere moderni: non avere l’ossessione di disegnare strutture perfette ma praticare la strategia dell’elenco delle funzioni; non essere simmetrici e assonanti; non farsi suggestionare dagli impianti prospettici; superare la tridimensionalità per inserire la scomposizione quadridimensionale; non fare volumi chiusi, scatolari; non progettare architetture che rinunciano alla temporalità della fruizione; non chiudersi al paesaggio circostante.
È chiaro, le sette invarianti del linguaggio moderno calzano perfettamente solo all’interno della grande costruzione zeviana. Viste al di fuori, diventano semplici consigli empirici, dei quali si capisce l’utilità ma non la perentorietà. E difatti sono diventate uno dei motivi principali di zimbello e di scherno a Zevi. Soprattutto la simmetria che molti hanno interpretato come una sua stupida e poi senile ossessione. “Ah sì, Zevi, quello della simmetria”
In realtà, se tornava sin troppo ripetutamente su questo tema, credo che lo facesse più per difendere la sua grande narrazione, che per una idiosincrasia a priori di tutto ciò che è simmetrico. Ci sono numerose pagine in cui mostra di tollerarla: per esempio nel primo Wright che la adoperava diffusamente nelle opere della prima maturità. Perché il problema non è la simmetria, ma la concezione statica dello spazio. E quindi i precetti idolatrici delle cultura cattolica e dei regimi autoritari che sottraggono lo spazio stesso dalla sua dimensione umana e temporale per giustificare, rappresentandola come immutabile, una fonte esterna di autorità e di oppressione.
Cosa resta di Zevi a distanza di cento anni dalla nascita? Un lascito enorme. È lui l’Eraclito dell’architettura. Il continuatore dell’opera di Francesco De Sanctis e di Benedetto Croce. Oggi però non è più tempo di grandi narrazioni. Non ne siamo più capaci e non possiamo esimerci dal notare le forzature che ogni racconto onnicomprensivo, che vuole essere coerente con se stesso, genera a livello di contenuti e di metodo. D’altra parte senza questo racconto e il suo cannocchiale deformato (come sono deformati tutti i cannocchiali critici) ci sfuggirebbero interi passaggi, per esempio sul nesso che esiste tra architettura e libertà. Passaggi che dobbiamo certamente riscrivere e rivedere ma senza i quali ci perderemmo in interpretazioni formaliste o puramente contenutistiche, che sono i pericoli in cui continuamente sprofonda la storiografia. D’altra parte anche chi si scontra con Zevi, alla fine, non può che riconoscerne la grandezza, come ebbe a fare Manfredo Tafuri che, in fin di vita, dopo averlo lungamente combattuto, riconobbe quanto la sua interpretazione sia stata essenziale nella formazione della storiografia architettonica moderna. Oggi il problema è come riscrivere nuove storie della libertà, coscienti che per dichiararsi zeviani occorre prima di tutto non esserlo.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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