La mostra completa un lavoro che stai facendo da anni, per una giusta lettura della moda italiana. Oltre a illustrare le capacità artistiche e artigianali del Made in Italy, racconta l’aspetto storico economico, aspetti che altri Paesi, come la Francia, tengono serenamente in considerazione. Perché non è così in Italia?
La moda in Italia dovrebbe meritare più attenzione. Per questa ragione, con Stefano Tonchi abbiamo agito assumendo la postura della militanza. Lo abbiamo scritto nero su bianco nel saggio introduttivo del libro – che insieme alla mostra costituisce il progetto Italiana. Forse può far sorridere, ma abbiamo scelto di assumerla per far parlare la nostra moda. Per affermarne l’identità, il valore. In quanto sistema culturale, economico e comunicativo. In Francia, ma anche in Inghilterra, la moda è presente di diritto nei dipartimenti dei musei con importanti collezioni e progetti espositivi di successo. Quelli del Galliera a Parigi e del Victoria & Albert a Londra sono emblematici in tal senso.
Perché l’Italia non ha mai saputo dare il giusto valore a questa sua capacità?
I presupposti di Italiana sono molto ambiziosi – per esempio voler restituire nella mostra e nel libro la moltitudine di attori che hanno animato il sistema. Al tempo stesso ci sembra un’operazione improrogabile. Nata dalla consapevolezza che l’Italia, nel tempo, non ha assegnato alla moda quel ruolo culturale che oggi ci permetterebbe di dialogare alla pari con i musei e le istituzioni che all’estero si occupano di moda. I musei presenti sul territorio non sono pochi, ma nessuno ha un carattere nazionale e ha come mission la tutela e la promozione della moda italiana. Le associazioni di categoria spesso non sono in relazione reciproca. I collezionisti privati, che fortunatamente hanno deciso di trattare i propri guardaroba come archivi, non ricevono un riconoscimento istituzionale. Le università che trattano la moda come disciplina rigorosa da trasmettere anche nella dimensione laboratoriale sono pochissime e il Ministero dell’università e della ricerca per ora non ha prestato ascolto alle sollecitazioni.
Pensi che la lettura limitata data dalla critica straniera sia strategica? Come se si volesse contenere il Made in Italy a un ruolo episodico, spontaneo, poco organizzato?
Credo sia parzialmente vero quello che dici. È urgente, infatti, aggiornare l’idea di Made in Italy e considerarla nel suo vero significato: un prodotto di qualità fatto in serie, che vede in azione il designer, l’azienda, il tecnico – anche l’artigiano, ma solo in una dimensione di ricerca. Occorre svincolare la moda italiana dall’idea che sia il luogo super specialistico del fare artigianale. Gli attori del sistema immaginano e producono. Intercettano e disegnano i desideri.
La mostra riprende il testimone da Bellissima, la rassegna andata in scena al MAXXI di Roma, con gli stessi principi curatoriali?
Non è esattamente un passaggio di testimone, ma Italiana è certamente animata dalle stesse urgenze, dalle stesse intenzioni. Il periodo è più lungo e articolato, un trentennio cruciale per la definizione dell’identità della moda italiana, fino alla sua trasformazione in fenomeno globale. Diversamente da Bellissima, l’atteggiamento storiografico è meno presente, filtrato dalla dimensione autobiografica. Per questa ragione preferiamo parlare di storytelling.
Sei riuscita a dare solidità e credibilità a un argomento spesso trattato superficialmente. La moda, grazie a te, produce opere e documenti. Un lavoro serio ma che dialoga con il concetto di lusso e bellezza della moda. Vorresti un museo, un luogo istituzionale?
Come accennavo, in Italia le istituzioni sono numerose – penso al Museo della Moda e del Costume di Palazzo Pitti, a Palazzo Morando a Milano, al Museo del Tessuto di Prato a Milano. Però è urgente metterle a sistema e articolare una programmazione culturale ed espositiva. Al tempo stesso, nell’ambito della formazione occorre eliminare i pregiudizi che ancora confinano la moda al di fuori delle discipline con dignità di insegnamento all’interno dell’università, riconoscendone la complessità e il peso non solo culturale ma soprattutto politico, economico e sociale.
‒ Clara Tosi Pamphili
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