Cultura. Tra politically correct e coesione sociale
La cultura, da sola, non può essere veicolo di coesione sociale. Questa è la prospettiva offerta da Stefano Monti, che individua nel diretto confronto con l’altro una via utile a raggiungere l’obiettivo.
La polemica del tutto sterile che ha visto protagonisti involontari Christian Greco e il Museo Egizio di Torino può avere però un aspetto positivo: sollevare alcune questioni che vengono in genere date per scontato.
La prima è l’impatto che il politically correct ha avuto nella cultura: pur nella sua accezione più positiva, il politically correct è la traduzione più o meno letterale di “non scontentare nessuno”. E questo, nella cultura, è impossibile.
È impossibile perché qualunque direzione si decida di prendere, troverà necessariamente qualche obiezione (e chiunque abbia un gruppo di conoscenti/amici sa cosa significhi).
Parafrasando una bella frase di Luttazzi, se almeno una volta al giorno non c’è qualcosa che ci indigni o che ci offenda, vuol dire che non viviamo in una democrazia. Ma si sbaglia. L’altra opzione è che nessuno faccia nulla. Ed è questo lo stato dell’arte (in tutti i sensi) in Italia.
Il fatto che nulla, nella cultura degli ultimi anni, abbia suscitato rimostranze di sorta è già di per sé un indicatore dello stato di salute. Che non sia stato fatto nulla, o che quanto è stato fatto non abbia raggiunto un sufficiente numero di persone. E delle due, difficile stabilire quale sia la prospettiva più negativa.
La seconda, ancora più importante, è che non si può demandare soltanto ai musei, e agli operatori di cultura nel senso più ampio dell’accezione, una funzione così importante come quella della coesione sociale.
“Allora smettiamola di demandare all’assistenza o alla cultura il ruolo della coesione sociale. Queste attività, il cui valore è propedeutico e che spesso nascono per l’assenza di visioni politiche concrete, non possono, da sole, permettere la convivenza civile”.
La coesione sociale è il risultato di politiche importanti, il frutto di un lavoro che, a partire da una strategia condivisa, si trasforma in routine quotidiane. Coesione è più di integrazione, accettazione del diverso. Coesione è coesistenza. Su questo tema i governi più sviluppati dei nostri (si pensi all’Inghilterra, con Manchester e Londra, si pensi agli Stati Uniti negli Anni ’70) e le imprese che vivono in contesti più multiculturali (sul tema dell’interculturalità sul luogo di lavoro sono stati realizzati tanti progetti quanti studi universitari) hanno già da tempo sviluppato delle pratiche volte a favorire l’integrazione e la coesione sociale.
Nella nostra Italia, invece, la questione non è mai stata davvero affrontata, e il risultato è evidente: abbiamo ancora difficoltà a superare gli stereotipi del nord contro sud, figuriamoci quanto possa essere arretrata la nostra posizione in termini di coesione con altre culture.
Il problema è che non lo vediamo: ha ragione Feltri, quando dice che la maggior parte di noi non vive davvero il dramma dei migranti perché le occasioni di incontro o di scontro con queste persone sono molto rare. Su questo punto però è giusto essere chiari ed evitare ogni forma di buonismo e polemica: perché ci possa essere un incontro/scontro con un altro individuo (qualunque sia la sua condizione sociale, demografica, ecc.) è necessario che si co-abiti, che si co-esista. E questo, in Italia, è davvero molto raro.
“Coesione è più di integrazione, accettazione del diverso. Coesione è coesistenza”.
È difficile che si trovi su un luogo di lavoro un collega extra-comunitario (sia esso statunitense, giapponese o africano). Ma è proprio il luogo di lavoro l’unico punto in cui possiamo avere un confronto con persone differenti da noi.
Non è il vicinato, a meno che non si faccia parte di una di quelle associazioni e si viva il quartiere in modo molto intenso; non è l’aggregazione religiosa, perché in genere, in quei casi, ci si confronta soltanto con persone che credono nelle stesse cose; non è il museo, che può fornire chiavi di lettura su altre culture, ma certo non facilita il dialogo “concreto” (al museo, in genere, si scambiano poche parole anche con persone che si conosce bene).
Allora smettiamola di demandare all’assistenza o alla cultura il ruolo della coesione sociale. Queste attività, il cui valore è propedeutico e che spesso nascono per l’assenza di visioni politiche concrete, non possono, da sole, permettere la convivenza civile.
È giunto anche il momento che chi ci governa prenda in carico davvero la questione, smettendo di vivere di emergenze e facendo in modo che le persone inizino a confrontarsi sul serio con il diverso.
L’accettazione passiva da parte della cittadinanza può infatti portare a un punto di intolleranza. È necessario dare a chiunque sia diverso da noi un nome, una professione, dei difetti che siano personali.
Altrimenti la strada per la coesione sociale sarà destinata a vivere di scontri ideologici senza alcun tipo di fondamento concreto.
‒ Stefano Monti
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