Whitney Biennial 2012. La biennale del qui e ora

La Whitney Biennial, la mostra che il mondo dell’arte ama odiare, apre le sue porte tra promesse di grandezza e il riecheggiare delle intimità che nascono dal gesto creativo. Fino al 27 maggio a New York.

Here and now è il soggetto della Whitney Biennal 2012. Durante gli opening remark la mostra è presentata senza un percorso, un centro o una periferia. Fra gli oratori, Adam D. Weinberg (direttore del museo), Donna De Salvo (capo-curatore), Elisabeth Sussman e Jay Sanders (curatori della Biennale).
L’intervento più audace è quello di Elisabeth Sussman, che colpisce per spavalderia quando afferma che per i visitatori sono in arrivo cose mai viste. In particolare, il mai visto si concentra soprattutto nella gestione degli spazi. Dei quattro piani della Biennale, uno intero, il quarto, è dedicato alle performance.
Novità peculiare nella storia del Whitney è la presenza costante di un artista che ha traslocato dentro il museo per i prossimi tre mesi la propria camera/atelier e la propria creatività. Altro segno di distinzione rispetto alle Biennali di altri lidi è il numero esiguo di artisti esposti, 51, confermando il trend in diminuzione delle scorse Biennali del Whitney, proteggendo l’esposizione dal rischio dell’effetto-fiera che può essere causato dalla compartizione degli spazi quando ci sono troppi artisti presenti.

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Whitney Biennial 2012

Originale è il contributo di Robert Gober, presente non con qualcuna delle sue sculture iperrealiste, ma come curatore dell’angolo dedicato a Forrest Bess: la curatela come forma d’arte e genere creativo in sé.
La Biennale è anche una piccola rivincita del fatto-a-mano e degli oli su tela rispetto a video e arti grafiche. In generale, è una rassegna che curiosa nel mondo reale. E quando fruga tra i fluidi e le viscere del materiale informatico, si respira aria di tramonto nell’alba di un’epoca fortemente automatizzata.
I curatori hanno confezionato complessivamente una mostra garbata, attenta, casta e agnostica, consapevole di aprire le proprie porte a un contesto di crisi economica e sociale.
La mostra tradisce inoltre il concetto d’integrazione. Si sa che il Whitney è sinonimo di Biennale d’America. Pur decidendo di aprirsi ad alcuni artisti del Nordeuropa, dall’edizione del 2012 non trapela la complessità multietnica delle origini e soprattutto del presente degli Stati Uniti, la nazione degli arrivi e del sangue nato lontano. Dentro l’Occidente si sente la mancanza dell’estetica e della cultura del resto del mondo, che pur vive e continua a sapersi inserire in ogni classe sociale del Paese a stelle e strisce. Coloniale è lo sguardo rilegato alle terre africane, con un totem di artificiali zanne d’elefante. Il mondo latino-americano, presentissimo socialmente e politicamente nella maggioranza del Paese, è liquidato con il cuore e l’alcova di una prostituta di origini ispaniche.

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Whitney Biennial 2012

Dalla Biennale che tutti amano odiare non alzeranno troppe polemiche o aspre critiche. Ci si aspetta però che nessuno gridi al genio fra i quattro piani del Whitney Museum. Molti usciranno ammaliati dalle opere di Hercules Seghers, pittore olandese di inizio XVII secolo che il talento di Werner Herzog ha saputo riprodurre in un’installazione video toccante e indimenticabile.

Alessandro Berni

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Alessandro Berni

Alessandro Berni

Alessandro Berni, scrittore. Vive la critica d’arte come un genere letterario dentro il quale l’emozione anticipa e determina il senso dell’informare.

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