Gordon Matta-Clark (New York, 1943-1978) torna nel Bronx, luogo in cui ha cominciato la sua sperimentazione artistica e al quale è legato da una questione di appartenenza, grazie alla volontà del Bronx Museum of the Arts e alla collaborazione di David Zwiner. Storicamente caratterizzata da un difficoltosa crescita e una severa decadenza, la periferia nord-est di Manhattan porta ancora con sé i laceranti segni della disastrosa speculazione edilizia che l’ha contrassegnata. Erano gli Anni ‘70 quando veniva distrutto il 40% degli edifici in stato di abbandono, lasciati dalle famiglie a causa del mancato controllo sulle innumerevoli gang nate dalla povertà della zona, trasformando il panorama in un paesaggio di macerie, rottami e desolazione. In questi anni Matta-Clark, affascinato da tale disfacimento, inizia un dialogo con lo spazio, un rapporto fisico che traccia segni permanenti sul corpo abitabile; compie tagli chirurgici con annessi prelievi all’interno dei palazzi abbandonati del Bronx, spalancando varchi fra i diversi ambienti, effettuando aperture nelle mura delle case lasciate spoglie. “Una spericolatezza caparbiamente estranea a un quadro legale”, testimoniano le parole del suo compagno di avventure Manfred Hecht.
LA MOSTRA
La retrospettiva a cura di Antonio Sergio Bessa, direttore del programma curatoriale e didattico del Bronx Museum, e Jessamyn Fiore, curatrice indipendente e co-direttrice del Matta-Clark Estate, si apre con un video esplorativo delle superfici e dei sotterranei di NY. Bronx Floors, preso in prestito dal Museum of Modern Art, è posto su un piedistallo all’ingresso della prima sala espositiva, come primo monito del lavoro di Gordon; è una porzione di solaio ricoperto da un linoleum a quadrifogli su fondo turchese tra due soglie. Questo anello di congiunzione fra tre ambienti domestici, sottratto alla planimetria della società civile, rivela così la mancanza di uno sguardo etico da parte della politica dell’epoca su quella che era una fetta di città in difficoltà. Riportando alla luce questo tassello, Matta-Clark crea un legame fortissimo fra arti visive, architettura e filosofia. Attraverso questo atto lo spazio diviene mentale, slegandosi dal concetto di architettura tradizionale, e si presta alla riflessione sull’esistente. La sottrazione, lo scomparire, divengono così il contrario di loro stessi. La decostruzione compone una narrativa forte tanto quanto e se non più del movimento del costruire, attraverso un atto che pone un energico punto di domanda sulle responsabilità etiche e politiche dello scenario circostante.
Nello stesso periodo, spinto dalla curiosità per la cultura hip-hop fiorita in quell’enclave conflittuale, Matta-Clark realizza un corpus fotografico che prende vita nel ’73, documentando i primi graffiti che modificano l’aspetto della città, intervenendo poi a mano sulle immagini stampate in grande formato in bianco e nero. Grazie all’uso dell’aerografo, le tracce di tag e graffiti si delineano vive sulla pellicola fotografica, mettendo in luce la gestualità del segno e quindi la traccia umana che abita la desolazione di quei territori e cerca affermazione. L’azione di aggiunta che egli compie nel far riemergere la parte pittorica denota un ulteriore livello di interazione con l’ambiente urbano, qui sintetizzato in immagini di pareti e vagoni, limiti visivi trasformati in fogli da disegno. La sottrazione è a monte, attraverso l’uso di una pellicola in bianco e nero che non cattura i colori, ma li sottrae, appunto, all’equazione dell’immagine, per poter poi compiere il gesto ‒ fondamentale per la fruizione delle sue opere site specific – di una interazione che ri-disegna il tratto di un altro artista entrando in contatto con esso. È in questo contesto e seguendo i fili di questo dialogo intimo che l’artista finisce per “prestare” il suo van ai writer del Bronx, invitandoli a graffitare il veicolo. L’intento era quello poi di esporlo a Washington Square e venderlo facendolo letteralmente a pezzi, mettendosi in polemica con l’annuale rassegna del Greenwich Village che non aveva accettato i suoi lavori sui graffiti, appunto.
LE ULTIME OPERE
Da questa fase aurorale del suo lavoro il Bronx Museum decide di saltare fino agli esiti conclusivi della breve parabola dell’artista, in un ritratto evocato tra i momenti di inizio e fine di quel capitolo di storia dell’arte che porta il suo nome. Negli ultimi due progetti ritroviamo così lo stesso respiro, ma più ampi margini d’impatto. Sotto la lente dei visitatori finiscono Day’s End e Conical Intersect, nati in sequenza nel 1975 e di cui sono mostrati i video-documentari oltre a una serie di studi e di immagini fotografiche. Si tratta di azioni effimere e transitorie che hanno segnato l’immaginario collettivo attraverso un uso dell’architettura diverso, consapevolmente abbattitore di frontiere o, letteralmente, di muri.
Da queste registrazioni su pellicola emergono lo scrupoloso studio matematico e la frenesia sentimentale di un giovane visionario alle prese con il taglio verticale di una lamiera dell’hangar della Baltimora Railroad Company che arrivava ad affondare perfino nel legno della pavimentazione, aprendo uno scenario naturale che introduceva la luce del sole e la presenza dell’acqua all’interno di un capannone industriale diventato una moderna area sacro-ricreativa dove tessere relazioni e fare comunità capovolgendo – negandola ‒l’angosciante visione dell’ennesimo magazzino chiuso. Un’opera che fonde architettura e Land-art in una sublime cornice onirica. Spinto fortemente dal voler creare questa apertura verso il mare (all’epoca Manhattan aveva pochissimi scorci accessibili di riva), l’artista crea il primo parco post-industriale sottraendo all’abbandono un luogo che media per i visitatori un ritorno alla purezza di elementi essenziali della natura.
DOCUMENTAZIONE E FRAGILITÀ
La mostra si chiude con Conical Intersect, realizzata in occasione della Biennale di Parigi del 1975, il progetto che porterà Matta-Clark a forare due edifici settecenteschi destinati alla demolizione nell’area adiacente al Centre Pompidou attraverso interventi strutturali che mettono in discussione l’idea di spazio, come per un archeologo urbano che cerca di comprendere gli stati dell’abitare. Quest’operazione, articolata in una serie di cerchi concentrici tagliati a mano, arriva a formare un cono con due direttive diverse che si intersecano creando una prospettiva visiva unica, un gancio di riflessione, oltre che un collegamento visivo, tra la nuova costruzione all’avanguardia e la storicità di un centro urbano. Un commento critico sulla trasformazione di un quartiere parigino che stava promuovendo il processo di gentrificazione della zona. Quel che emerge da questa sorta di dedica che il museo di uno dei più complessi distretti newyorkesi fa a uno dei suoi figli è proprio la dimensione dell’intellettuale, osservatore, anti-architetto o, appunto, “anarchitetto” in cui si riconosce Matta-Clark, un attivatore di dispositivi più che un creatore di opere. Sembra quasi naturale, quindi, che, di tutti i suoi lavori, a rimanere nel tempo sia poco più che la documentazione del processo, la cattura dell’atto stesso del fare pensando, del sezionare un corpo architettonico per poterlo decifrare, scomporre, riconducendolo a una sorta di analisi dell’involucro prossimo all’uomo come la casa, che diventa simile all’uomo nella fragilità di questo disfarsi.
– Lucrezia Longobardi
New York // fino all’8 aprile 2018
Gordon Matta-Clark. Anarchitect
THE BRONX MUSEUM OF THE ARTS
1040 Grand Concourse
www.bronxmuseum.org
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