Dialoghi di Estetica. Parola a Domenico Quaranta
Il curatore e critico Domenico Quaranta affronta il delicato legame fra arte e new media. Attraverso un excursus sugli ultimi decenni.
Critico e curatore di arte contemporanea, Domenico Quaranta pone al centro delle sue ricerche l’impatto dei più recenti mutamenti tecnologici sui mezzi di produzione e disseminazione artistica. Collabora irregolarmente con diverse riviste, tra le quali Flash Art, Artpulse, Rhizome. È autore di saggi, recensioni e interviste pubblicati in riviste, giornali e portali online. Tra i suoi libri: NET ART 1994-1998. La vicenda di Äda’web (Vita & Pensiero, Milano 2004); GameScenes. Art in the Age of Videogames (Johan and Levi, Milano 2006, curato con M. Bittanti), Media, New Media, Postmedia (Postmedia Books, Milano 2010), In My Computer (2011), AFK. Texts on Artists 2011-2016 (2016). Insegna presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e l’Accademia di Belle Arti di Carrara.
In questo dialogo abbiamo affrontato in particolare: la relazione tra rinnovamento operativo e tecnologico nelle pratiche artistiche contemporanee, il ruolo del web e dei dispositivi di produzione di immagini e video, le caratteristiche della prospettiva postmediale e gli approcci curatoriali alle sperimentazioni tecnologiche nell’arte contemporanea.
Guardando agli sviluppi dell’arte contemporanea, possiamo riconoscere un profondo legame tra le nuove procedure operative introdotte negli Anni Sessanta e le innovazioni tecnologiche. Se dovessi fare una sintesi, quali fasi indicheresti per spiegare le principali trasformazioni della sperimentazione artistica legate a tale rapporto e all’uso dei nuovi media e degli strumenti digitali?
L’arte contemporanea non esiste in un vuoto pneumatico: esiste in un contesto sociale, politico, economico e culturale che la influenza e a cui risponde, volente o nolente. Dalla Seconda Guerra Mondiale, le tecnologie e le culture digitali fanno parte di questo contesto, che hanno plasmato in maniera crescente. Eppure, con rare eccezioni, gli sviluppi dell’arte contemporanea vengono spiegati e analizzati come se questo fattore non esistesse. Nel 1968, il critico americano Jack Burnham pubblica su Artforum un articolo in cui discute l’avvento di una nuova “estetica sistemica”, analizzando l’impatto della cibernetica e della teoria dei sistemi complessi su pratiche artistiche trasversali, dal concettuale al minimalismo a Fluxus alla video installazione. Due anni dopo, due mostre (Information al MoMA e Software al Jewish Museum, curata dallo stesso Burnham) leggono il concettuale come una risposta all’avvento del software e della teoria dell’informazione.
E poi?
Negli anni successivi, queste indicazioni preziose sono restate disattese, a favore di altre idee più facili da digerire (la smaterializzazione come strategia anti-sistema e anti-mercato, ecc.). Le teorie del postmoderno includevano un ragionamento sull’impatto dei nuovi media, e Lyotard ha curato una mostra formidabile come Les Immateriaux; ma, ancora una volta, questo aspetto della riflessione non ha avuto molto seguito in ambito critico e curatoriale; qualche anno dopo, persino le chiavi di lettura offerte da Jeffrey Deitch in Post Human sono rimaste lettera morta, nonostante il successo degli artisti da lui promossi. Negli Anni Novanta, Nicolas Bourriaud ha collegato esplicitamente l’estetica relazionale alla diffusione dei media interattivi, e più tardi il concetto di postproduzione alla diffusione di quella “copy machine” che chiamiamo computer; ma purtroppo il suo manifesto sospetto per l’uso artistico dei nuovi media, a favore dei loro “effetti indiretti” sulle pratiche non digitali, si è protratto per troppo tempo, impedendogli di comprendere i cambiamenti significativi che interessano la scena della media art negli Anni Novanta.
E per quanto riguarda la fase più recente?
L’ultimo decennio ha visto il riconoscimento dell’impatto dei nuovi media sull’arte estendersi a figure di primo piano, da Hans Ulrich Obrist a Massimiliano Gioni, e alcune figure teoriche o artistiche legate al mondo della media art – da Hito Steyerl a Ryan Trecartin, da Boris Groys a Cory Arcangel – raggiungere posizioni importanti sul palcoscnico dell’arte. Ma la rapidità con cui è stata licenziata frettolosamente la questione del “post internet” dimostra che le resistenze sono ancora forti, e il riconoscimento ormai ovvio dell’impatto dei nuovi media sull’arte presente non ci esime da un processo di revisione storica, sempre più necessario.
Consideriamo le pratiche artistiche che prevedono l’uso dei nuovi media: che cosa cambia oggi rispetto alle fasi degli Anni Ottanta e Novanta?
Intanto, già tra Anni Ottanta e Anni Novanta c’è un abisso che si chiama net art: una pratica che risponde all’avvento della rete e della consumer technology con un approccio sovversivo, concettuale, ironico e low-tech molto diverso dall’“esplorazione creativa del potenziale artistico delle nuove tecnologie” propugnata fino ad allora dal mondo della new media art. Questo fatto ha cambiato totalmente il panorama delle pratiche artistiche digitali. Negli Anni Duemila, ciò che è accaduto è che le tecnologie digitali sono diventate un vissuto condiviso, da tutti e non solo da una élite di early adopters. La net art era una avanguardia, e alcune delle dicotomie su cui si reggeva (virtuale vs reale, immateriale vs materiale, uso della rete come medium vs come piattaforma distributiva) sono decadute. Qualsiasi opera, qualsiasi immagine venga prodotta esiste oggi in una società in rete e in una economia digitale, e qualsiasi contenuto digitale è suscettibile di materializzazione. In questo contesto, forse l’espressione “le pratiche artistiche che prevedono l’uso dei nuovi media” non ha più nemmeno tanto senso di esistere, se non in un contesto didattico o in un discorso sulla conservazione.
Come s’inserisce il web nel quadro delle nuove possibilità di produzione artistica contemporanea?
Ti rigiro la domanda: quanto sei offline? Oppure: come si inserisce Parigi nel quadro delle ricerche artistiche delle avanguardie? Internet è un potenziale mezzo artistico che apre a una innumerevole quantità di possibilità operative. Ma è, soprattutto, un luogo di vita, uno spazio di socializzazione, una memoria collettiva da setacciare ed esplorare, e da cui non possiamo prescindere, quale che sia il modo in cui facciamo arte.
Che cosa rendono possibile i nuovi strumenti tecnologici dei quali possono servirsi oggi gli artisti?
I nuovi media introducono tante nuove possibilità, ma personalmente non sono le possibilità che mi interessano. Preferisco pormi domande come: che cosa possono dirci gli artisti sulle tecnologie che hanno invaso la nostra vita quotidiana, che plasmano la nostra economia, la nostra politica, il nostro modo di fare la guerra e il contenuto dei nostri sogni? Come possono aiutarci a comprenderle meglio, ed eventualmente a riformularle prima che sia troppo tardi, e che siano loro a riformulare noi?
Alla luce delle nuove possibilità tecniche offerte da dispositivi come tablet e smartphone, in che modo si sta trasformando la produzione di immagini, video e altri artefatti visivi?
Tra i tanti cambiamenti introdotti, credo che quello decisivo resti il fattore quantitativo, ossia l’accesso indiscriminato alla produzione e alla distribuzione di contenuti. Ogni giorno, milioni di immagini e video vengono prodotti e pubblicati, da persone di ogni età, censo e livello culturale. Oggi, letteralmente, anneghiamo nelle immagini, a un punto che sembra ormai impossibile, persino per le macchine, tradurre questa tempesta di informazioni in senso. È un fatto che contribuisce in maniera consistente a delineare la condizione contemporanea.
Rispetto all’uso di dispositivi non fotografici, di recente hai osservato che essi concorrono attivamente a quella che descrivi come la “reinvenzione della fotografia”. Come si compie questa innovazione e di che svolta si tratta?
Semplice: la fotografia non esiste più. È stata fagocitata e sostituita da un altro mezzo che la emula alla perfezione – così bene che non ci siamo accorti della sua sparizione, così bene che tutti pensiamo che quelle che facciamo col telefono siano fotografie. Ma non lo sono: sono emulazioni della fotografia. La fotografia oggi esiste solo come manifestazione possibile dell’immagine digitale, e continuerà a esistere finché esisteranno le funzioni sociali a cui quel mezzo inventato a metà Ottocento ha egregiamente risposto per un secolo e mezzo. Fino a che, in altre parole, esisterà un concetto di “fotografia”. Questo concetto, e le funzioni cui ancora risponde (memoria personale, certificazione di un’identità, ecc.) sono gli agenti di conservazione; la nuova natura digitale dell’immagine, la sua malleabilità, la sua genesi algoritmica sono gli agenti di innovazione.
Le trasformazioni determinate dalle nuove tecnologie nelle arti contemporanee sono affrontate ponendo attenzione al superamento del medium in direzione della cosiddetta condizione postmediale. Come possiamo considerare questa condizione in rapporto al ruolo dei nuovi media?
La condizione postmediale l’ha definita per prima Rosalind Krauss, affermando che, negli Anni Sessanta, alcuni sviluppi nelle pratiche artistiche (l’arte concettuale) e nel mondo dei media (l’avvento della televisione) ci hanno traghettato in una condizione postmediale (“post-medium condition”). Ciò che Krauss vuole dire è che, in arte, la “specificità mediale” non ha più senso di esistere; e io credo che alla sua lista di killer dell’idea di medium andrebbe aggiunto l’avvento del computer, “metamedium” che fagocita tutti gli altri linguaggi. Dai primi Anni Duemila, il concetto di postmedialità è stato riformulato come “post-media”, come più generale riconoscimento di come i media digitali abbiano trasformato radicalmente il nostro modo di produrre, circolare e fruire qualsiasi artefatto culturale, incluse le arti visive. La condizione postmediale come la intendo io fonde queste due accezioni, e si traduce in un duplice invito: alla media art, a rinunciare a una equivoca “specificità” che il suo stesso mezzo ha contribuito a rendere obsoleta qualche decennio fa; all’arte contemporanea, a riconoscere l’impatto avuto dall’onda digitale (la “terza onda” di Alvin Toffler) sulla sua storia e sulla sua attualità.
Sul piano della riflessione critica e delle pratiche curatoriali, quali aspetti è importante tenere in considerazione per lavorare proficuamente sulle pratiche artistiche basate su nuovi media?
È importante, innanzitutto, non considerarle come un insieme a cui si può rivolgere uno sguardo comune; non vederle – e non proporle – come qualcosa di “altro” rispetto all’arte contemporanea, ma leggerle e contestualizzarle in una rete di relazioni con altre pratiche, di cui a tutti gli effetti fanno parte. È importante non avvicinarle per infatuazione tecnofila, né ripudiarle perché si teme o si rifiuta la tecnologia: la media art è, il più delle volte, la coscienza critica della tecnologia, e non la sua celebrazione. È importante conoscerne la storia e gli sviluppi, per non rischiare di costruire una storicizzazione falsificata che dimentica le esperienze pionieristiche ma poco visibili. Ma è importante, soprattutto, considerare l’arte, quella particolare alchimia di contenuto e forma che consente ai grandi lavori di continuare a parlare nel tempo. La tecnologia è un partner ingombrante per l’arte: impone un tempo suo, un ritmo evolutivo rapidissimo, che ha come contraltare la rapida obsolescenza delle macchine e delle estetiche, e la rapida alternanza di soluzioni e tematiche. L’arte ha il compito, difficilissimo, di seguire questo ritmo e confrontarsi continuamente col presente, ma senza esserne schiava, perché il rischio è di invecchiare e perdere attualità con la stessa rapidità.
‒ Davide Dal Sasso
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