La cultura è una necessità. Intervista a Gabriella Belli
Parola alla direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia, per una chiacchierata a tutto tondo sulle politiche culturali e sul futuro della città lagunare. A pochi giorni dall’inaugurazione della mostra dedicata a John Ruskin.
Cominciamo dalla programmazione dei Musei Civici per il 2018, presentata a Milano qualche settimana fa. Da quali spunti prende le mosse?
Le attività della Fondazione per il 2018 rientrano in un progetto molto organico e complesso perché la Fondazione è un unicum fatto di molte facce ‒ dodici musei, ciascuno con la propria vocazione, ma inseriti in un programma che restituisca un senso identitario generale. È una programmazione che segna dei punti di interesse legati alla disciplina storico-artistica, alla ricerca e alle relazioni internazionali, con attività che però hanno fondamento nel luogo. Il tema identitario per me è sempre stato fondamentale. A livello espositivo, da una parte abbiamo Ruskin e dall’altra Tintoretto. Ruskin ha gravitato attorno a Venezia con una presenza importante dal punto di vista del pensiero e di quello che ha lasciato sul terreno rispetto al tema della salvaguardia e della tutela di Venezia; il genio di Tintoretto, invece, che dal 1937 non viene riesplorato a Venezia, è al centro di una mostra foriera di molte novità, rispetto alla biografia dell’artista e alle sue opere.
Quali intenti hanno ispirato la mostra dedicata a Ruskin e come si colloca quest’ultima rispetto all’humus veneziano, cui Ruskin era così legato?
La mostra su Ruskin si è posta degli obiettivi. Il primo è esplorare il senso del lavoro compiuto da Ruskin e fare i conti con The Stones of Venice, scritto tra il 1851 e il 1853, libro fondamentale per lo sdoganamento del gotico veneziano e più in generale europeo. Venezia, negli anni Cinquanta dell’Ottocento, era molto operosa nel distruggere, facendo prevalere il concetto di cancellazione della storia. Ruskin introdusse nella nostra coscienza civile il tema della conservazione del patrimonio, fu una voce fuori dal coro, che si levò talmente alta da spingere a riflettere, in Italia, su questi temi. Il progetto di distruzione di buona parte del centro storico di Venezia per farne una città moderna venne per fortuna abbandonato. Il secondo obiettivo della mostra è chiarire il metodo attraverso cui Ruskin raggiunse la consapevolezza della situazione in cui versava la città, ovvero il suo lavoro di artista, anche se lui non si considerava tale. Gli oltre 5-6mila disegni frutto dei suoi viaggi non erano destinati né al mercato né a essere esposti. Ruskin li produceva per sé. Il disegno per lui era un metodo di scoperta della natura e dell’architettura e di appropriazione della città.
E il terzo obiettivo?
Il terzo punto è capire l’attualità del lascito di Ruskin. La sua voce ha trovato, sul fronte della tutela del patrimonio storico-artistico e architettonico, una buona sponda. Il Novecento in Italia è stato un secolo che ha salvaguardato il patrimonio. Dalla cancellazione si è passati alla stratificazione della storia dell’arte e della cultura e dunque alla conservazione di ciò che rimane.
Che cosa penserebbe Ruskin di Venezia, oggi?
Se oggi Ruskin dovesse giungere a Venezia, troverebbe una città che si è conservata bene. A essere cambiate sono le funzioni della città, poiché la storia in qualche modo ha fatto il suo corso. Sul fronte della conservazione architettonica, il contemporaneo a Venezia è arrivato “in pillole”, per fortuna. Sono state introdotte delle innovazioni architettoniche che non hanno turbato il tessuto urbanistico della città. Il contemporaneo è un elemento su cui bisogna sempre riflettere e personalmente lo considero un elemento utile per creare una cerniera fra l’antico e l’antico.
Vi siete ispirati a Ruskin anche nella definizione degli allestimenti?
Grazie a Pier Luigi Pizzi, architetto e uomo che sa interpretare i luoghi con grande sensibilità, abbiamo ripensato il ruolo che potrebbe avere il Museo dell’Opera all’interno del percorso di visita di Palazzo Ducale. Il Museo dell’Opera è l’area espositiva al piano terra, a fianco della biglietteria, dove nel 1995-96 vennero installati dall’allora direttore Franzoi tutti quei capitelli che, nel corso di un grande restauro ottocentesco, furono tolti dalle facciate perché molto degradati e pericolanti e sostituiti da delle copie. Con il tocco di Pizzi siamo riusciti a restituire tale atmosfera a queste sale, che sono la parte più antica di Palazzo Ducale. Accedere al mondo di Ruskin dopo questa immersione nel gotico, che lui tanto amava e che descrisse con grande dettaglio, credo sia un’operazione interessante.
A proposito di salvaguardia di Venezia, non solo da un punto di vista architettonico, nel corso di una recente intervista alla direttrice della Collezione Peggy Guggenheim ho portato alla sua attenzione un articolo pubblicato dalla CNN, in cui Venezia figura tra le 12 mete mondiali da evitare, chiedendole cosa possano fare le istituzioni culturali per ricondurre il turismo su binari virtuosi. Rivolgo la stessa domanda a lei.
Io credo che la città stia risalendo, anche se molto lentamente, grazie a degli strumenti di cui finalmente ha deciso di dotarsi, primo fra tutti il “numero chiuso”, che ha funzionato bene durante il periodo di Carnevale, dimostrando che la città un poco alla volta potrà anche tutelarsi riorganizzando il turismo. Tutti hanno il diritto di visitare Venezia, ma è anche giusto che sia la città a scegliere quando: la sua fragilità richiede della cautele.
Che cosa ha determinato questa inversione di tendenza?
Non solo il numero chiuso per certe manifestazioni ‒ strumento che va perfezionato perché bisogna capire cosa succede fuori dal perimetro della Marciana, indirizzando i flussi verso le zone più periferiche della città ‒, ma anche la riduzione del tonnellaggio, pur sempre alto, delle grandi navi di passaggio in Laguna. C’è anche un’inversione sulle licenze di alberghi, bed and breakfast eccetera. Insomma, la risalita è molto faticosa, ma il percorso è tracciato e questi sono punti di non ritorno verso un maggior controllo dei flussi turistici.
Qual è dunque il ruolo dei musei su questo fronte?
I musei credo debbano continuare a fare un lavoro di qualità e dignitoso. Venezia, sul fronte delle mostre temporanee, si muove all’opposto rispetto a qualsiasi altra città. Chi viene a Venezia visita le collezioni e il patrimonio, le mostre temporanee servono a fidelizzare il pubblico locale. In generale è importante fare mostre di ricerca, utili, ma le istituzioni devono anche svolgere una funzione educativa: le persone vanno educate ad amare il bello, a capirlo e a rispettarlo. Noi abbiamo una ricca sezione di attività educative, che cercano di incanalare i giovani verso l’idea di unicità e di rispetto di questa città. Certamente, però, la strada non verrà segnata dalle istituzioni culturali, ma dalle decisioni della politica. Come diceva Ruskin, un buon governo significa una buona forma della città e il malgoverno significa una città non amministrata.
È un principio ovvio, ma fondamentale, valido in tutte le città del mondo, non solo a Venezia.
Restando in ambito politico, queste sono settimane di transizione e di incertezza. Che cosa si augura, sul fronte culturale e come direttore di un’istituzione fra le più importanti in Italia, per il futuro?
In questo Paese sta passando troppo spesso il concetto che con la cultura si mangia. La cultura è certamente un elemento straordinario, che incide sul PIL nazionale, ma credo che gli eccessi non siano mai salutari. Penso che in tutte le visioni della nuova politica bisognerà sempre tenere presente che la cultura è una necessità, prima di essere un’utilità. La cultura è necessaria alla formazione e alla crescita di una società civile. Ecco perché va finanziata, al pari dell’istruzione e della sanità. È una necessità dell’anima, più che del corpo, ma resta una necessità. Non è solo un’utilità economica. Questo fondamento si è perso perché, in uno stato di emergenza economica, i finanziamenti alla cultura si tagliano e quindi si dice che la cultura deve autofinanziarsi. In parte deve farlo, certo, ma devono esistere dei giusti bilanciamenti. Ad esempio i restauri e l’arricchimento del patrimonio storico-artistico sono aspetti essenziali. Il nostro Paese raramente acquista patrimonio ed è un peccato, poiché le nostre collezioni “invecchiano”. Non esiste più l’idea dell’investimento sull’arte contemporanea che i nostri nonni invece avevano.
In tal senso, durante questi anni alla guida dei Musei Civici, ha innescato e consolidato una serie di collaborazioni positive, aprendo l’orizzonte a dialoghi con soggetti privati.
Il rapporto pubblico-privato è fondamentale perché pubblico e privato sono le facce della società. Siccome la cultura è di tutti, appartiene a entrambi. Il vero tema è la linearità e la trasparenza delle relazioni. Quindi, se queste sono chiare e trasparenti, ben venga il privato che ha il diritto di occuparsi del patrimonio culturale. La collaborazione tra i due ambiti è un elemento importante della società civile. Ad esempio l’Art Bonus è stato un primo passo, ancora piccolo per quanto riguarda il trend della defiscalizzazione, ma rilevante, perché significa iniziare a regolamentare con una legislazione, che può via via affinarsi, il rapporto tra pubblico e privato, facendo sì che diventi trasparente e virtuoso.
Continuerà a muoversi in questo solco?
A Venezia continuerò a lavorare con il privato perché ritengo fondamentale che il privato sia coinvolto tanto quanto il pubblico in un impegno civile di sostegno del patrimonio. Sono due categorie, certo, ma che costituiscono la società civile. Inoltre la città può contare sulla meravigliosa presenza dei comitati per la salvaguardia di Venezia, che sono un’eredità straordinaria lasciata dalla tragedia del ’66 e che in altre città sono dispersi. A Venezia hanno resistito grazie all’amore degli stranieri, che adorano più di noi Venezia. Venezia sembra essere più una loro necessità che una necessità degli italiani e questo è curioso. I comitati sono una risorsa fantastica, con cui noi lavoriamo assiduamente. Se non ci fossero stati i comitati privati, molte cose non sarebbero potute accadere nei Musei Civici. Non vogliono nulla in cambio, sono dei mecenati nel vero senso della parola e la città dovrebbe onorarli di più.
‒ Arianna Testino
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