World Press Photo 2018. La foto dell’anno sarà una di queste sei
Ad aprile sapremo i nomi dei più efficaci fotoreporter del 2018, secondo il World Press Photo. E conosceremo, fra le tante foto premiate, le sei migliori in assoluto. Immagini potenti, che descrivono un mondo in pieno conflitto.
Grandi storie, ritratti eloquenti, scampoli di umanità esposti alla tragedia e al conflitto, paesaggi ai confini del mondo, teatri del dolore e del riscatto. Un racconto per immagini, che dell’immagine ribadisce tutta la potenza simbolica e il valore, fra documentazione e denuncia, compassione e conoscenza, impronta etica e ricerca estetica.
Il prestigioso World Press Photo, lanciato dall’omonima fondazione olandese nel 1955, continua il suo viaggio in mezzo ai volti, i luoghi e i racconti mediati dagli sguardi di straordinari reporter, a tutte le latitudini: l’archivio ideale di quegli scatti esemplari, che di ogni decennio diventano testimonianze brucianti, deve molto a questa storica competizione.
Bisognerà attendere il prossimo 12 aprile per conoscere i vincitori dell’edizione 2018, annunciati come ogni anno ad Amsterdam. La giuria, presieduta da Magdalena Herrera di GEO Magazine Francia, ha esaminato 73.044 foto, scattate da 4.548 fotografi provenienti da 125 paesi. Sono 46 i finalisti in lizza per le 8 categorie in gara: Questioni Contemporanee, Ambiente, General News, Progetti a lungo termine, Natura, Persone, Sport, Spot News.
Cinque gli italiani: Giulio Di Sturco, Luca Locatelli, Francesco Pistilli, Fausto Podavini e Alessio Mamo. Quest’ultimo è in corsa con uno scatto in bianco e nero particolarmente intenso: Manal, 11 anni, vittima dell’esplosione di un missile a Kirkuk, in Iraq, ha il volto protetto da una maschera post-operatoria, a seguito di un intervento di chirurgia plastica ricostruttiva, condotto da Medici Senza Frontiere all’ospedale di Amman, in Giordania. Una figura aliena, ambigua, angosciosa, inquadrata di tre quarti a mezzo busto, a evocare lo schema della ritrattistica moderna.
Sono invece 6 i candidati al premio principale, il World Press Photo of the Year: dalla battaglia di Mosul al Venezuela di Maduro, passando per l’orrore di Boko Haram.
– Helga Marsala
CADEVERI IN BANGLADESH
Giacciono su un prato, coperti da teli di plastica e lenzuoli fradici, i corpi di cento rifugiati Rohingya, minoranza musulmana dello Stato di Rakhine, nel Myanmar occidentale. In fuga da un territorio ostile, in cui marginalità e persecuzioni hanno portato all’esplosione di rappresaglie civili, questi uomini e queste donne cercavano una chance a bordo di una barca. E incontrarono, però, il peggiore dei destini. A otto chilometri da Inani Beach, in Bangladesh, l’imbarcazione si capovolse. Solo 17 i sopravvissuti.
L’obiettivo dell’australiano Patrick Brown si sofferma per l’UNICEF su un angolo di quel cimitero casuale, fotografando da vicino alcune salme. Inquadratura obliqua, con la massa di cadaveri che prosegue oltre i bordi della foto, lasciando immaginare lo scempio ed escludendo il contesto. I corpi come pietre, le ombre disegnate, i tessuti zuppi d’acqua, i volti velati, i colori accesi. E l’odore di morte che esala, nell’immagine tetra del piccolo drappello addormentato.
RITRATTO DI AISHA
Ha solo 14 anni e dietro di sé sconta già l’ombra del terrore. Aisha, africana del Borno, è una delle tante giovani donne finite nella trappola di Boko Haram. I feroci nigeriani affiliati alla Jihad la rapirono e la assegnarono a una missione terroristica suicida. Aisha, miracolosamente, riuscì a fuggire e mettersi in salvo. Su commissione del New York Times l’australiano Adam Ferguson le scatta un ritratto intenso, severo, in cui la poesia ha il timbro dell’inquietudine. O della sua memoria. Gli occhi bassi, il capo e la figura avvolti dal chador, immobile come una statua classica, Aisha taglia in due la scena, con una centralità monumentale. La finestra velata alle spalle, la stanza in penombra e il gioco della luce frontale suggeriscono un intreccio di simboli e di sensazioni: la fuga, il rifugio, l’apertura e la chiusura, la costrizione e il passaggio. Essere sopravvissute e sentirne tutto il peso, tutta la paura.
STRAGE DI LONDRA
Scena da un attentato. Una donna è a terra, ferita, gli occhi spalancati, il sangue copioso sull’asfalto. Un’altra, in ginocchio, la soccorre. Il dettaglio cruento è rubato dall’inglese Toby Melville per l’agenzia Reuters: oltre la dinamica concitata dei fatti, nel pieno del panico che segue l’azione truce. È il 22 marzo del 2017. A Londra, sul ponte di Westminster, proprio di fronte al Parlamento britannico, il pakistano Khalid Masood – nativo del Kent, convertitosi all’Islam – si scaglia contro la folla con la sua auto. Cinque le vittime. Lo Stato Islamico rivendica. L’attentatore, raggiunto dai proiettili della polizia, non ha scampo.
I GIORNI DI MOSUL
L’irlandese Ivor Prickett consegna al New York Times un’immagine possibile della guerra. Quello che viene dopo, quello che il conflitto produce: le conseguenze dell’odio, nella condizione dell’attesa e della solitudine. Mosul, 2017. Sono i giorni della lunga battaglia per strappare la città irachena all’Isis. Due lunghe file di civili, stretti fra loro, divisi tra uomini e donne, aspettano gli aiuti nel quartiere di Mamun. I neri niqab scandiscono lo spazio in primo piano, al pari del volto chiarissimo di una bimba, incastonato al centro. Umanità compressa sul bordo, disorientata, sospesa.
I GIORNI DI MOSUL 2
Doppia candidatura per Ivor Prickett, dallo stesso servizio su Mosul. Fulcro dell’immagine, nel teatro diurno di rovine e divise militari, è il corpo ossuto di un bambino. Svenuto tra le braccia di un soldato delle forze speciali irachene, era stato messo in slavo da un uomo sospettato di essere un miliziano: lo aveva tirato fuori dall’ultima zona della città vecchia controllata dall’ISIS.
La foto è tutta nella verità di quella stretta, che racconta la routine concitata dell’emergenza e che non arriva a sciogliersi nella tenerezza. E in quel piccolo corpo nudo, rigido, esposto alla luce del mezzogiorno, consumato nei giorni della catastrofe.
FUOCO E FIAMME CONTRO MADURO
3 maggio 2017, Caracas. Proteste di piazza, sollecitate dalle forze di opposizione, per chiedere elezioni presidenziali anticipate: Maduro prova a modificare il sistema democratico venezuelano, nel tentativo di rafforzare i propri poteri. Durante gli scontri tra la guardia nazionale e i manifestanti incappucciati volano pietre contro la polizia, divampano roghi in strada. In piena guerriglia esplode il serbatoio di una motocicletta: il 28enne José Vìctor Salazar Balza, coperto da una maschera antigas, viene travolto dalle fiamme. Ronaldo Schemidt, fotoreporter venezuelano, lo immortala per France Presse: in una frazione di secondi l’immagine dell’uomo-torcia è bloccata in un fuoco perenne. E gli abiti che bruciano, la corsa contro il tempo, la morte in azione. José Vìctor si salverà, riportando ustioni di primo e secondo grado.
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