Che fine ha fatto il distretto culturale?
Stefano Monti riflette sulle dinamiche alla base del distretto culturale. Una realtà che oggi sembra non essere riuscita a prendere il largo.
Per un po’ di tempo non si parlava d’altro: il distretto culturale, nelle sue varie e variopinte accezioni, era sulla bocca di tutti coloro che volessero fare della cultura un driver di sviluppo.
Oggi, di distretti culturali se ne vedono ben pochi. Almeno nel senso “produttivo” del termine.
Andando direttamente all’origine della questione, il distretto industriale individua una serie di imprese, un sistema di creazione del valore, distribuite in una determinata area geografica e collegate attraverso una serie di relazioni (spesso del tipo fornitore-cliente) che porta alla realizzazione di una specializzazione produttiva con conseguente miglioramento della qualità e delle performance di tutte le organizzazioni coinvolte.
Mutuando questo concetto, in molti abbiamo creduto si potessero creare condizioni favorevoli per la creazione di distretti culturali. Forse in troppi. Così, malgrado siano stati fatti ingenti investimenti, e ancor più ingenti fondi siano stati allocati sul tema, manca, ad oggi, una chiara visione del distretto culturale e di come esso possa essere implementato nella realtà viva di un territorio.
A complicare la vicenda dei distretti industriali è intervenuto sicuramente il fenomeno della globalizzazione: il distretto, in questo senso, può oggi assumere dimensioni tutt’altro che locali. Grazie allo stato dell’arte tecnologico, è oggi possibile che un’impresa abbia team di lavoro disseminati nel mondo, persone che dal loro PC non si sono mai viste e che lavorano per uno stesso soggetto imprenditoriale. Figuriamoci dunque quello che può accadere tra soggetti che si riassumono in un rapporto fornitori-clienti.
“La nostra cultura è rimasta italocentrica, ma senza che questo abbia portato alla creazione di reali distretti. Oggi, al massimo, esistono alcune produzioni culturali che si avvalgono di piccoli fornitori, magari vicini geograficamente, ma le condizioni non sono tali da creare un microcosmo di relazioni e collegamenti da permettere un incremento produttivo reale”.
Questo, almeno è in parte, è stato uno dei fenomeni più importanti della rivoluzione industriale degli ultimi anni: delocalizzazione, reshoring (il rientro delle imprese in patria), fornitori nel sud-est asiatico e via dicendo, con tutti i problemi “territoriali” che ne sono derivati: riduzione della creazione di valore presso il territorio e conseguente riduzione degli occupati, del gettito fiscale, disomogeneità sociale, aumento del dissenso e incremento del divario tra le classi di reddito.
Ma è questo che è successo anche nella cultura?
Non proprio. Perché altrimenti avremmo assistito a un aumento sensibile delle esportazioni di beni e servizi culturali. Perché è condizione necessaria, ancorché insufficiente, che chi si avvale di filiere produttive internazionali sia anche in grado di affacciarsi su mercati internazionali.
La nostra cultura è rimasta italocentrica, ma senza che questo abbia portato alla creazione di reali distretti. Oggi, al massimo, esistono alcune produzioni culturali che si avvalgono di piccoli fornitori, magari vicini geograficamente, ma le condizioni non sono tali da creare un microcosmo di relazioni e collegamenti da permettere un incremento produttivo reale.
Perché il distretto funzioni, infatti, sono necessarie alcune condizioni di base:
– la presenza di un player forte, capace di avviare una politica di integrazione verticale dei propri processi produttivi;
– la presenza, o lo stimolo, di molti altri player, in genere micro-imprese, in grado di assolvere con elevata efficienza a operazioni atomiche dell’intero processo produttivo;
– la creazione di condizioni di scenario (facilità di creazione dei rapporti, informazione non distorta, libertà contrattuale, ecc.) che permettano alle piccole società di crescere con la crescita delle commissioni da parte del player più forte;
– reperibilità di personale specializzato.
A guardar bene, la questione si fa spinosa sugli ultimi due punti: reperibilità del personale specializzato e condizioni per assumerlo. E questo si ricollega a uno stato di fatto del nostro Paese che è tutt’altro che competitivo su questo punto. Non perché manchino le risorse primarie (personale competente e volontà delle società di crescere) ma perché è sempre più difficile gestire (sia sotto il profilo legislativo-politico che sotto il versante di management puro) le condizioni di scenario in cui oggi un’impresa culturale vive.
“Perché ci siano realmente condizioni per creare distretti culturali è necessario che ci sia una crescita endemica e strutturale, che in questi anni è veramente difficile da garantire, o che ci sia, da parte del territorio che se ne fa promotore, un intervento in grado di favorire questi distretti nei momenti in cui rischiano di fallire”.
Proviamo a fare un esempio.
Una piccola società che sviluppa contenuti multimediali contatta un importante interlocutore di produzione televisiva e cinematografica. La società valuta il prodotto positivamente e decide di “testare” la piccola società con una piccola commessa. Tutto va per il meglio. La grande società ha trovato un fornitore specializzato e la piccola un grande cliente. Con beneficio per entrambi. La grande società decide quindi di affidare alla piccola società una produzione più importante. E qui arrivano i problemi. Perché la piccola società è in media composta da team di 4-5 soggetti (in realtà sono di meno, ma per l’esempio può andar bene così) ed è quindi costretta ad andare sul mercato per poter trovare ulteriori lavoratori per far fronte a questa richiesta. Si badi bene, però, che la richiesta della società di produzione è più grande della precedente, ma non è detto che il trend rimanga crescente nel tempo. Per questa ragione, la società andrà a reperire soprattutto sul mercato delle Partite Iva, per poter trovare delle condizioni che soddisfino i requisiti o altre società di fornitori in grado di assolvere questo passaggio. Tutto ciò ha senso nel momento in cui la produzione iniziale (quella della grande società) continuerà a crescere. Nel tempo questo porterà all’aumento di benessere per tutti e si saranno instaurati rapporti solidali tra i vari soggetti coinvolti, direttamente o indirettamente, nel processo produttivo.
Ma se questo non accade? Se, per un solo momento, la grande società ha un periodo di flessione (sempre più frequente) o compare un altro player più competitivo proveniente da altri territori (anche questo piuttosto comune), cosa succede al distretto? Si sgretola. Ecco cosa accade. Perché ci siano realmente condizioni per creare distretti culturali è necessario che ci sia una crescita endemica e strutturale, che in questi anni è veramente difficile da garantire, o che ci sia, da parte del territorio che se ne fa promotore, un intervento in grado di favorire questi distretti nei momenti in cui rischiano di fallire. Tutto ciò manca, nel nostro Paese. Mancano figure di management in grado di capire quali siano le esigenze delle differenti società (piccolissima, piccola e grande), manca un territorio attento a intervenire per investire nella formazione di un comparto produttivo e mancano le condizioni contrattuali, fiscali e finanziarie per poter garantire che tutto questo possa avvenire in modo “spontaneo”.
Non basta dunque erogare fondi per la costruzione di distretti. Bisogna comprendere le forme contrattuali, la scalabilità congiunta, le condizioni di mercato. Non è facile, è vero. Ma se non si ragiona in questi termini stiamo gettando via tempo, finanziamenti pubblici, e stiamo impedendo alle piccole società e ai professionisti di trovare occasioni veramente valide di crescita, magari altrove.
‒ Stefano Monti
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