Lettere da un collettivo. Mi casa es tu casa
Uno scambio di email tra il collettivo ALAgroup e i fotografi Gloria Guglielmo e Marco Passaro, impegnati nel progetto di ricerca sull’abitare “Mush/rooms”, promosso dal Museo di Fotografia Contemporanea e ospitato fino al 2 aprile alla Triennale di Milano nella mostra “999. Una collezione di domande sull’abitare contemporaneo”.
Cara Gloria e caro Marco,
il vostro metodo di ricerca è un interessante caso di autoapprendimento. Capire le relazioni esistenti fra le persone che occupano in maniera informale una fabbrica abbandonata alla periferia di Roma attraverso fotografie e racconti significa interrogare l’idea comunemente intesa di abitare e, in particolare, porre l’accento su cosa vuol dire vivere in un luogo al di fuori della società. Il complesso dell’ex fabbrica di Penicillina Leo, un tempo centro di eccellenza della produzione farmacologica internazionale, abbandonato all’inizio degli Anni Zero, è oggi abitato da circa cinquecento persone, tra le quali si trovano intere famiglie. Cosa resta della condizione umana in una simile forma abitativa? E come si può vivere insieme in un luogo che non è una comunità stabile?
Care ALAgroup,
sono ormai due mesi che frequentiamo la Penicillina e le persone che abitano nel suo scheletro. Gli edifici della struttura sono occupati da alti cumuli di rifiuti e amianto, insieme a vecchi macchinari, medicinali e prodotti chimici. Ci siamo chiesti cosa spinga a scegliere di costruire un rifugio in un luogo simile, privo di elettricità e acqua corrente, e se sia possibile chiamarlo casa. Non esiste una risposta semplice a un tale quesito. Si abita nel tempo e in relazione a coloro che abitano con noi. “My house is your house. This is your house”, ci ha detto M., un abitante della Penicillina.
I primi occupanti sono arrivati presumibilmente nel 2011, ma negli ultimi due anni la popolazione è aumentata a un ritmo crescente. I nuovi arrivati stanno modificando la natura e la funzione dei luoghi, ripulendo i capannoni e creando spazi comuni, bar e negozi. C’è una microeconomia interna, beni e competenze di tutti sono potenzialmente in vendita. Chi cucina lo fa per sé ma anche per guadagnare qualcosa. Chi va a fare legna vende quella in eccedenza. Chi sa costruire vende un mobile, una parete o una casa. Non si tratta quindi di una vera e propria comunità, piuttosto di uno stare insieme forzato, in quanto si vive qui solo perché non si ha un’alternativa. Stare insieme in questo luogo è più facile e più sicuro che vivere in strada. “It’s a jungle life”, ha precisato un altro abitante, tuttavia esistono forme di solidarietà, perché c’è sempre qualcuno disposto a dare una mano, anche senza compenso.
Cara Gloria e caro Marco,
le dinamiche di questa microsocietà non sono immediatamente comprensibili dall’esterno, così come non è facile raccontarle. Le persone all’interno del complesso sono invisibili perché assimilate agli scarti farmacologici abbandonati e la loro invisibilità costituisce un fenomeno di rimozione collettiva che aumenta la distinzione fra noi e loro, segno tangibile della resistenza della società civile ai confronti del vivere insieme.
‒ ALAgroup
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #42
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