Un urlo contro la violenza. Teresa Margolles a Milano
"Ora basta figli di puttana". Questo è il titolo dell'ultima mostra di Teresa Margolles al PAC di Milano. Uno sguardo crudo e implacabile sulla violenza che contraddistingue il Messico e il mondo intero.
“Questa mostra è dedicata alla società civile. Il titolo vuole essere un messaggio che evidenzia la barbarie. Non l’ho inventata io“, racconta Teresa Margolles (Culiacan, 1963), “è stata scritta sul corpo decapitato di una donna di Tijuana, città di frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti“. La frontiera, di cui città simbolo nelle sue opere diventa Ciudad Juárez, è il luogo dove avvengono più omicidi, sparizioni, traffico di droghe, organi e speculazione sui migranti, dove è più diffusa la violenza sulle donne e l’omertà intorno ai delitti ma tutto il Messico ne è compromesso.
Teresa è un medico legale, si è occupata di quel ramo della medicina che riguarda lo studio delle cause di morte e delle modificazioni morfologiche fisiche e chimiche dell’organismo che ne conseguono, fondando in Messico il “Servicio Medico Forense” (SEMEFO) nel 1990. Questo spiega molto della sua poetica cruda e crudele, fisica, viscerale. “Lavoro con i corpi e con ciò che di loro resta, con le loro tracce“, dice.
In Italia, nel 2009, rappresenta il Messico alla Biennale di Venezia con la mostra Di che altro potremmo parlare?, sulle morti del narcotraffico, nel 2011, a Bolzano, denuncia le morti sulla frontiera, nel 2017, nella Tenuta dello Scompiglio, in Toscana, i femminicidi comuni alle “società machiste” come quella messicana o quella italiana. Conosciuta per questa sua vena di denuncia in tutto il mondo, lei tiene a precisare che non le interessa la provocazione, ma la meditazione su alcuni fatti aberranti che stanno generando assuefazione e impotenza, a causa dell’inazione dello Stato e di una strumentalizzazione melodrammatica o sensazionalistica di tragedie quotidiane come la violenza di genere o lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina.
Di che altro potremmo parlare? Di che altro potremmo scrivere? Se non del fatto che in Italia c’è una donna uccisa da un uomo, per motivi di genere, ogni tre giorni e che questo dato agghiacciante diventa relativo e ancora più raccapricciante se paragonato a quelli del Messico (Paese più grande per territorio e popolazione) che raggiunge le sette morti femminili al giorno. Il termine femminicidio viene coniato nel 1997 dall’antropologa femminista messicana Maria Marcela Lagarde proprio in riferimento a Ciudad Juárez. Le parole ci classificano, danno un senso alle cose, diffondono consapevolezza, ci tirano fuori dall’omertà. “Hijos de puta” è un insulto misogino nato e diffuso in un mondo maschilista ed è anche per renderci conto di questo che da questa espressione trae origine il titolo di questa mostra.
LA MOSTRA
L’esposizione del PAC riprende tutti questi temi in una carrellata di foto, video e ambienti che ricreano l’universo semantico delle opere di Teresa Margolles nell’oscillazione tra Amore e Thanatos, Vita e Morte.
In Mesa y dos bancos utilizza un tavolo e due panche posti di fronte all’ingresso del PAC, all’apparenza comuni arredi urbani, impastati però con l’acqua con cui sono stati lavati i cadaveri dopo l’autopsia in un obitorio di Città del Messico. Ricostituiamo un dialogo, nell’atto ordinario di sederci a chiacchierare gli uni di fronte agli altri, un colloquio tra vivi e morti.
Nell’installazione Gran America forma un memoriale con i ciottoli e il fango raccolti sul Rio Grande, dove i migranti anonimi hanno perso la vita, sul confine su cui Trump progetta il suo muro, che oggi appartiene agli Stati Uniti ma che un tempo era Messico. Nelle fotografie di Pistas de baile ritrae prostitute transessuali sui luoghi di lavoro che un tempo furono le loro piste da ballo a Ciudad Juárez, raccontando quel che rimane di una città oggi spettrale prigioniera della violenza e della lotta tra bande di narcotrafficanti. Di questi club, bar, locali notturni ci riporta insegne (Mundos), specchi dei banconi (Espejo de la barra del Club Ruv), pavimenti (Piso del Club Lago Blanco). Uno spazio è dedicato alla storia di Karla, un transessuale che Teresa ha conosciuto e fotografato e che pochi mesi dopo viene ucciso, dal certificato di morte scopriamo che si chiamava Hilario. Un pezzo di cemento presente in sala le ha fracassato il cervello, mentre la sua amica Ivonne ci racconta cosa le piaceva e com’era.
UN MONITO AL FUTURO
In Busqueda Margolles riporta delle pensiline di Juárez su cui sono stati affissi volantini di donne e bambine scomparse, una triste realtà in tutte le città del Messico, “desaparecidas”.
In 57 cuerpos lega insieme 57 fili residui di quelli utilizzati nelle autopsie per ricucire corpi di vittime non identificate di Guadalajara. In Papeles intinge 92 fogli di carta da acquerello in fluidi corporei (sangue, grasso, capelli) recuperati nelle sale mortuarie. In Vaporizacion, in un ampio ambiente chiuso da una tenda trasparente, diffonde acqua vaporizzata dove ha inserito frammenti di lenzuola con cui sono state ricoperte vittime di morte violenta presi in un obitorio di Milano. Un cartello ci avvisa che l’inalazione non reca danno alla salute, tuttavia si consiglia una sosta limitata.
Molti le chiedono perché fa tutto questo e la risposta è la parafrasi del titolo della mostra presentata ormai quasi dieci anni fa a Venezia: perché non si può parlare d’altro se non di questo. Perché con il cortocircuito generato dalle sue opere forse qualcuno cercherà di porre fine a queste stragi, forse prima o poi quei “figli di puttana” la smetteranno. Perché è anche un fatto culturale, e la sensibilizzazione può cominciare anche con un’opera d’arte.
‒ Mercedes Auteri
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