Apre a fine 2018 a Milano uno spazio per il gioiello contemporaneo. Con preview da Turi Simeti
L’idea è di Martina Simeti che aprirà il nuovo spazio a fine 2018 in Via Tortona. Con un focus sul gioiello contemporaneo ed uno sguardo aperto anche alle altre arti applicate. La neo gallerista ci racconta il progetto e la preview allo studio dell’artista Turi Simeti con la personale di Bernhard Schobinger.
Non solo preziosi da indossare, ma opere d’arte nel senso più stretto: è la rivoluzione del gioiello che si impone nel mondo contemporaneo come un’avanguardia – tra visual art e design -, con una storia ed un futuro tutti suoi. Fioccano le mostre, come quella realizzata ad esempio al Maxxi di Roma pochi mesi fa e nascono nuovi spazi testimoni di questa trasformazione. A Milano è Martina Simeti a lanciare la sfida aprendo l’11 aprile negli spazi dello studio dell’artista Turi Simeti (Alcamo, 1929), suo padre, una mostra personale dello zurighese classe 1946 Bernhard Schobinger, un reale maestro del genere, con 40 opere per la prima volta a Milano. Molte le collezioni che hanno ospitato il suo lavoro, dal V&A di Londra al Philadelphia Museum of Art, dal Lacma di Los Angels al Palais du Louvre di Parigi. Con questa esposizione, che apre un giorno prima del miart, si inaugura un nuovo percorso della Simeti dedicato “alle forme artistiche considerate periferiche” – così ci racconta – che culminerà con l’apertura di un nuovo spazio in Via Tortona, verso la fine del 2018. Ne abbiamo parlato con la Simeti, che ci ha raccontato la genesi dell’idea.
Martina, come nasce l’idea di un nuovo spazio dedicato al gioiello contemporaneo e le arti applicate?
L’idea si è un po’ imposta da sé. E come sempre c’è un che di casuale. Inizialmente, pensavo che avrei dato vita a mostre itineranti o pop-up, e di aprire eventualmente una galleria soltanto in un secondo momento. Poi sono incappata in un ex laboratorio di un argentiere in Via Tortona, e ho cominciato ad immaginarmi progetti e mostre…Non ho saputo resistere. Ho pensato, se non ora quando?
L’inaugurazione sarà però nello studio di Turi Simeti. Perché cominciare con Bernhard Schobinger? E perché nello spazio di un altro artista?
L’ho trovato potente, pieno di ironia, ma anche carico di pathos. Mi hanno colpito la tensione e la combinazione di dimensioni diverse, e il suo sapersi muovere liberamente sia in ambito concettuale che sensoriale. L’uso del gioiello come medium mi ha sorpresa ma non scioccata. Bruno Munari, in un breve testo dedicato al gioiello, spiegava come il suo valore dipenda, principalmente, da chi lo progetta. Se l’autore è una persona di cultura, inevitabilmente all’aspetto ornamentale è aggiunto anche un valore che, per facilità, definiremo “culturale”. In altre parole, se si tratta di un artista che se ne serve come mezzo espressivo, allora ci troviamo a rapportarci con una vera propria forma d’arte, che in quanto tale va trattata. È questo il caso di Schobinger, artista poco noto nel contesto dell’arte contemporanea, sebbene presente in importanti collezioni private nel nord Europa. In Svizzera, Germania, Olanda c’è, infatti, una tradizione di collezionismo di oggetti d’arte consolidata, dove, appunto, nessuno si stupisce se Schobinger è trattato esattamente come, ad esempio, François Morellet.
E per quanto riguarda la location?
La sua mostra si svolge negli spazi dello studio Turi Simeti, grazie all’ospitalità di mio padre e di sua moglie. Mi piaceva l’idea di usare un luogo di creazione e di lavoro come contenitore, e anche di promuovere un dialogo e una contaminazione tra le opere di Schobinger, che si possono considerare appartenenti alla sfera delle arti applicate, e quelle presenti in uno spazio caratterizzato e abitato da opere di artisti visivi, tra cui lo stesso Simeti, ma non solo. Oltre una serie di dipinti o sculture di vecchi amici di mio padre, tra i quali Enrico Castellani, Alberto Garutti, Pino Spagnulo o Grazia Varisco, in studio sono infatti presenti anche alcuni pezzi di autori come Joseph Beyus, Giuseppe Chiari, Tano Festa, Riccardo Camoni con i quali lavorò mia madre Carla Ortelli, attiva a Milano come gallerista nella metà degli anni Settanta.
Quali forme d’arte vi troveranno spazio?
Sono sempre stata attirata dalle quelle che hanno anche un uso. Me ne sono accorta quando ho trascorso alcuni anni in Africa e anziché interessarmi alle statue e dalle maschere, collezionavo legni cavi che servivano da piatti, terrecotte antropomorfe usate per trasportare l’acqua, svariati gioielli, tra cui molti bracciali con funzioni rituali e una serie di stuoie mauritane.
In questo momento sono molto appassionata al gioiello. Vorrei poter contribuire a far conoscere artisti che usano questo medium per esprimersi. Ciò detto, l’idea è di tenere aperte le porte anche ad altre possibili forme di arte, che si tratti di tessuti, ceramiche, o oggetti d’uso. Inizialmente, però, penso che metterò a punto una programmazione rivolta ad artisti che usano (anche) il corpo come campo di applicazione e indagine. Sto aprendo lo spazio in Via Tortona da sola proprio perché voglio poter assecondare liberamente nuove intuizioni e ricerche che inevitabilmente evolvono nel tempo.
Come le cosiddette arti applicate dialogano con il lavoro degli artisti?
Dialogare? Un dialogo presuppone una separazione. Da un lato le arti visive e dall’altro le arti applicate. Personalmente, mi interessa lavorare sulla zona di frontiera e sulle contaminazioni. Ci sono, non a caso, artisti che senza complessi né compromessi producono simultaneamente sui due registri, visivo e applicato, come un unicum. Penso a Tobias Rehberger per fare un esempio noto.
Ci sono poi anche artisti che usano soltanto l’arte applicata come medium. Una sorta di artigianato d’arte sperimentale. Credo che il mondo dell’arte si stia sempre più aprendo a forme considerabili sino a ieri come arte applicata e sia in corso un processo che si potrebbe definire di integrazione. È questo l’ambito che mi interessa indagare, così come mi interessa il lavoro di artisti che trattano in filigrana questioni sociali e che hanno uno sguardo critico.
E nel passato?
Va considerato che sono moltissimi gli artisti che hanno affiancato alla loro produzione “primaria” un’attività “parallela” dedicata a vasi, lampade, tessuti e, appunto, anche monili, da Giacomo Balla a Alexander Calder, sino a oggi… questi oggetti di arte applicata, in molti casi, sono stati considerati come appartenenti a una produzione marginale e forse per non pochi di questi lo è anche stata. Ma bisogna fare attenzione a non farsi intrappolare dalle categorie. Ci sono state di recente varie mostre che hanno riportato alla luce questi gioielli nascosti, scardinando vecchi tabù e riconsegnandoli all’attenzione del pubblico. Devo molto ad Anne Dressen, curatrice di varie mostre incentrate sulle zone grigie a cavallo tra arti maggiori e minori, tra cui l’esposizione “MEDUSA” al Museo d’art Moderne de la Ville de Paris, che ha contribuito allo sviluppo della mia idea e al suo concretizzarsi nell’apertura dello spazio.
Può descriverci lo spazio espositivo?
È al piano terra, all’interno di un vecchio cortile, con ciottolato e rampicanti. Lo spazio è di circa 130 metri quadrati… Non enorme, ma grande quanto basta. È il vecchio laboratorio di un argentiere. Ci sono ancora scatole stracolme di utensili che lui usava per cesellare. Mi ricorda la vecchia Milano in cui sono cresciuta – e che ho lasciato per l’estero molti anni fa – e da subito, dalla prima visita, mi ha ispirata e dato lo slancio che forse stavo aspettando.
– Santa Nastro
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