Architetti d’Italia. Luigi Pellegrin, il demiurgo
Luigi Prestinenza Puglisi dedica il 32esimo capitolo della saga sugli architetti d’Italia a Luigi Pellegrin.
Quando pensiamo agli architetti italiani operanti nel clima radicale degli Anni Sessanta e Settanta, ci viene in mente Superstudio: perché sono considerati i maestri di Rem Koolhaas e per i loro spettacolari disegni, che esercitano sulla critica accademica un’attrazione maggiore delle opere costruite.
Ci dimentichiamo, probabilmente, di Maurizio Sacripanti, Francesco Palpacelli, Leonardo Savioli, Sergio Musmeci, Vittorio Giorgini, Aldo Loris Rossi, Manfredi Nicoletti. E di Luigi Pellegrin e Leonardo Ricci. Eppure sono stati loro e non certo Adolfo Natalini i due grandi autori dell’architettura italiana di quegli anni: straboccanti di talento, bravissimi e sregolati, capaci di realizzare opere entusiasmanti per sensibilità ambientale e per articolazione spaziale.
E ideatori di altre così forti e anti-graziose da lasciar perplessi: come la scuola Marchesi a Pisa di Pellegrin o il Palazzo di Giustizia a Savona di Ricci. Edifici che i reazionari tirano fuori dal cappello per mostrare quanto l’ego sproporzionato degli architetti che si auto-considerano artisti possa produrre mostri della ragione. Senza captare, invece, che questi lavori, un po’ come le opere dell’ultimo Wright o, se volete, la Laurenziana di Michelangelo, non si giustificano in base ad alcun precetto di gusto perché sono i tentativi di personalità eccezionali di andare oltre, superando i limiti del buon senso, delle buone maniere, delle norme.
Ho incontrato di persona Luigi Pellegrin relativamente tardi, quando aveva 75 anni. Prima lo conoscevo attraverso qualche articolo apparso su L’Architettura, cronache e storia, una delle poche riviste che gli aveva sempre dedicato spazio. Di suo ricordavo soprattutto un ingegnoso sistema di tubi prefabbricati, che combinati insieme diventavano un habitat spaziale. Mi aveva incuriosito durante gli anni universitari, tanto che lo avevamo (uso il plurale perché gli esami nel 1976 si facevano in gruppo) preso come una delle fonti di ispirazione per il progetto di Composizione 2.
L’INCONTRO E IL LIBRO
A portarmi da Pellegrin, nel 2000, fu Giovanni D’Ambrosio con l’ipotesi di scrivere un libro sulla sua opera. D’Ambrosio avrebbe curato la parte grafica e iconografica. Gigi, così lo chiamavano tutti, probabilmente sentiva di avere i giorni contati (sarebbe morto l’anno successivo, il 15 settembre del 2001) e voleva lasciare un paio di libri che illustrassero i suoi progetti, idee e realizzazioni. Uno scritto da un critico e l’altro di suo pugno, perché dei critici, e giustamente, non si fidava troppo. Non so perché avesse scelto me per il primo. Forse perché avevo pubblicato un testo sugli Anni Sessanta e Settanta in cui lo avevo citato e lui, in quel periodo, soffriva che la cultura ufficiale lo avesse dimenticato. Comunque, nonostante fossi stato individuato per questa positiva apertura, dovevo essere rieducato perché le mie simpatie per l’architettura contemporanea erano sospette. Hadid, Koolhaas, decostruttivisti, postdecostruttivisti e architetti bloboidali avevano, infatti, ai suoi occhi avuto il merito di liberarci dall’abbraccio mortificante dell’accademia postmoderna, ma ci stavano portando verso un estetismo che ci allontanava ugualmente dalla meta.
Educarmi fu un processo lento, faticoso e credo per lui particolarmente frustante perché l’alunno collaborava sino a un certo punto. Parlavamo a lungo. A volte mi mostrava i suoi progetti. A volte i suoi quadri. A volte i plastici. Era autoritario: una sera costrinse i ragazzi dello studio a sorreggere sulle braccia un grande plastico che avrebbero potuto tranquillamente appoggiare sul tavolo della sala riunioni. Quando gli chiesi perché lo facesse, mi rispose che così li forgiava al sacrificio e alla fatica, senza i quali non si dava un buon architetto. Mi fece vedere un lungo documentario di National Geographic in cui si raccontavano le forme e i modi di organizzazione della natura. Ogni tanto mi dava da leggere i suoi scritti. Autore sibillino, astruso ed ermetico, era per me, che ho il culto della scrittura chiara e scorrevole, una tortura leggerlo. Un suo componimento su una colonna di un tempio siracusano e che regalò a mia moglie ci è costato decine di visite a Ortigia per cercare di capire cosa volesse dire, sino a quando intuimmo che era la descrizione dell’ingegnoso attacco tra il fusto e il capitello della stessa.
TRE CONSIDERAZIONI
Sebbene snervanti, gli incontri mi fecero capire due o tre cose molto importanti. La prima è che l’architettura di Pellegrin e dei migliori architetti degli Anni Sessanta si basa su un concetto sacrale della forma. Che non è mai un’invenzione arbitraria, il frutto di un gioco, ma la conformazione necessaria che acquista la materia quando deve svolgere un compito. In questo senso Pellegrin era profondamente organico, lontano anni luce dai formalismi intellettualistici degli Anni Novanta. Per lui una trave storta era una trave storta se non svolgeva un compito specifico che imponeva proprio quella inclinazione. Le forme di Gehry gli sembravano incomprensibili, pure masturbazioni intellettuali, perché quelle curvature erano dei metallici carter di rivestimento e non delle sintesi che nascevano da un’idea originale di struttura come, per capirci, avveniva nei ponti di Sergio Musmeci o nelle coperture di Félix Candela.
La seconda è che, proprio perché dialoga con la natura, anzi con la Natura, l’architettura deve essere insieme antichissima e modernissima, deve cioè puntare ad arrivare all’origine dei problemi e indicare il futuro. In questo senso il tempo non esiste, esiste solo la classicità, la forma perfetta che però non è detto che sia semplice, banale o simmetrica.
La terza è che l’architetto è un personaggio aristocratico delegato alla costruzione del mondo e non un tecnico che fornisce soluzioni a basso costo. Il suo compito è organizzare l’umanità indicando la strada della sintesi tra Natura e Cultura.
Proprio per questa ragione, pur essendo un progettista eccezionalmente dotato che ha costruito alcune delle case più belle del dopoguerra, quali la casa bifamiliare sull’Aurelia a Roma (1964) e, pur avendo avuto una vita professionale molto attiva con centinaia di opere realizzate, Pellegrin ha preferito dedicate la gran parte delle proprie energie all’invenzione di habitat che avrebbero mostrato all’uomo come si possa vivere meglio, rispettando il pianeta. Si tratta di progetti entusiasmanti, di scala grande o gigantesca, alcuni addirittura pensati per flottare nello spazio e disegnati sino al minimo dettaglio, tutti caratterizzati da una colpa originaria: la volontà dell’architetto demiurgo di imporre agli abitanti la propria filosofia di vita. Una visone autoritaria che lo accomuna ad altri grandi utopisti quali per esempio Paolo Soleri e, in misura minore, gli Archigram della prima fase (cito solo questi due perché nelle nostre conversazioni erano tra i pochi progettisti da lui citati con rispetto).
Dopo tante conversazioni, finalmente, riuscii a spostare l’attenzione sul libro che dovevamo mettere in cantiere. Ero letteralmente esaurito dalla frequentazione di un personaggio così debordante e divorante. Il primo capitolo venne bene. Si parlava delle prime opere dove la componente visionaria passava in secondo piano rispetto alla magia spaziale e capacità di lavorare sui materiali. Pellegrin era stato infatti un eccezionale interprete dell’architettura organica. La sua fonte di ispirazione era Louis Sullivan più che Frank Ll. Wright. Glielo feci notare. Lui convenne e mi mostrò alcune foto professionali (era anche un eccellente fotografo) delle banche agricole del Lieber Meister nella provincia e che lui aveva scattato da giovane quando si era recato negli Stati Uniti su suggerimento di Bruno Zevi.
CAMBIARE IL MONDO CON L’ARCHITETTURA
Agli altri tre capitoli, che completavano la monografia, dedicai un’attenzione decrescente. A mano a mano che il tempo passava, non vedevo l’ora di finire: e difatti credo che l’ultimo capitolo sia in lunghezza un terzo del primo. Come tutti i grandi personaggi, Pellegrin era soffocante a un grado massimo.
Sicuramente avevamo idee diverse sull’architettura, ma soprattutto sul ruolo dell’architetto. Certo è che poche esperienze sono state tanto formative come quegli incontri che mi hanno impegnato per oltre un anno. Oggi penso che forse Pellegrin è stato l’ultimo dei grandi progettisti italiani, di coloro che pensavano che il mondo si potesse cambiare per davvero con la buona architettura. E che per giungere a questo risultato hanno sacrificato ‒ nel senso che la hanno spinta sino all’ultima frontiera che è segnata dal kitsch e dall’anti grazioso ‒ la loro immensa bravura formale. Non poteva essere altrimenti: in fondo erano bravi proprio perché avevano questa visione integralista e utopista del mondo. Una visione che impediva loro, come si fa oggi, di confezionare abitini con tessuti dalle belle trame, e li costringeva a ogni progetto a scontrarsi con il cosmo, anche sapendo che alla fine ne sarebbero usciti con le ossa rotte.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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