Architetti d’Italia. Studio Nemesi, il coraggioso
Il 33esimo capitolo della saga di Luigi Prestinenza Puglisi è dedicato allo studio Nemesi, fondato da Michele Molè e Claudia Clemente. Esempio di un approccio coraggioso all’architettura.
Ho conosciuto Michele Molè alla fine degli Anni Novanta. Era uno dei due partner di Nemesi. L’altra era Claudia Clemente. Entrambi mi avevano portato a vedere un ristorante da loro recentemente completato, il Duke’s ai Parioli. Ne ero rimasto colpito. Rappresentava al meglio un modo di vedere l’architettura che stava diffondendosi nella Capitale. La novità consisteva nella liberazione dai modelli bloccati del postmodernismo e l’apertura al decostruttivismo, sia pure attraverso alcuni filtri specifici della cultura romana, quali l’attenzione al contesto, l’amore per un linguaggio d’importazione ma comunque colto e forbito, la presenza di riferimenti storici. Nemesi era notevolmente influenzato dall’esperienza angelena e, in particolare, da Tom Mayne e da Morphosis. E, difatti, nel Duke’s si respirava aria da West Coast, il che doveva andare particolarmente bene ai proprietari i quali servivano cocktail e cibi all’americana e, quindi, avevano trovato nell’architettura un corrispettivo alla loro formula commerciale.
LA CHIESA DI SANTA MARIA DELLA PRESENTAZIONE
Che di tutti gli studi operanti in quel periodo a Roma e, direi anche in Italia, Nemesi fosse uno dei più dotati lo si vide subito dopo, quando inaugurarono la Chiesa di Santa Maria della Presentazione, al Quartaccio. Un’opera ampia e, insieme, possente e leggera caratterizzata da una grande e sottile tettoia nel cui interno si articolano spazi e percorsi posti in sequenza. Per questa sua caratteristica la chiesa ricorda il Centro Congressi di Jean Nouvel a Lucerna, anche se Michele Molè, quando glielo ipotizzai, non era d’accordo con tale genealogia. Non insisto, con l’architettura è sempre difficile individuare parentele o affinità, alcune delle quali, più che da intenzionalità esplicite, nascono dall’aria che si respira in un certo periodo e in specifici ambienti culturali.
Mi ricordo il giorno assolato che andammo a visitarla, per un episodio paradossale e divertente. La chiesa si trova, infatti, in un quartiere caratterizzato da abitazioni popolari di rara bruttezza, oltretutto degradate dall’effetto congiunto del tempo e dell’incuria. Una signora con la testa coperta da bigodini, che guardava dalla finestra, ci scorse mentre giravamo intorno alla chiesa e, pensando che fossimo ambientalisti, cominciò a urlarci che un simile scempio (la chiesa, non l’edificio orribile che lei abitava) occorreva abbatterlo al più presto, perché alterava l’equilibrio urbano e ne comprometteva le visuali (quali?). Salutata la signora ed entrati all’interno dell’edificio, che si articola attraverso camminamenti in esterno e in interno, ebbi la sensazione che si trattava di un punto di svolta dell’architettura a Roma e comunque un segno di speranza. Cominciava a formarsi anche nella Città Eterna, immobile e paludosa, una nuova generazione di progettisti che avrebbero dato una considerevole sterzata alla produzione architettonica. Una speranza ‒ con il senno del poi ‒ sicuramente eccessiva, ma i tempi erano altri da quelli masochisti, stanchi e sfiduciati dell’oggi. Erano gli anni, infatti, in cui nel mondo venivano inaugurati, uno dopo l’altro, capolavori uno più stupefacente dell’altro: dal Guggenheim di Bilbao al Museo Ebraico di Libeskind, dalla stazione dei pompieri della Hadid alle opere di Koolhaas e di Nouvel. A Roma, grazie alla presenza di Bruno Zevi, di Franco Zagari e di una nuova critica che si andava formando, si metteva in discussione l’immobilismo culturale che ci aveva preceduto. La Biennale di Venezia nel 2000 era assegnata alla direzione del romano Massimiliano Fuksas. Si viveva un periodo di boom economico e risorse ingenti erano destinate all’edilizia. E c’era Rutelli, un sindaco particolarmente sensibile alle ragioni della buona architettura, che si stava dando da fare: molto, ovviamente, in relazione alla flaccida pigrizia consueta.
Tanto ero entusiasta di quella chiesa che volli metterla in copertina in un libro che pubblicai nel 2002, intitolato Tre parole per il prossimo futuro. L’immagine, più di tante parole, a mio avviso doveva comunicare l’idea che si poteva voltare pagina.
LA SEPARAZIONE
Poco dopo mi giunse, invece, la notizia che Nemesi, seguendo una pessima abitudine tutta italiana che porta alla atomizzazione degli studi, si stava dividendo. Ognuno dei due soci sarebbe andato per conto suo. Da un lato Michele Molè, che conservava il nome di Nemesi, e dall’altro Claudia Clemente, che si sarebbe associata con Francesco Isidori dando vita a Labics.
Ci rimasi malissimo e parlai lungamente con i due ex soci per dire loro che si trattava di una sciocchezza. Ero convinto che il segreto del loro successo fosse la diversità: da un lato il carattere più poetico, ossessivo e scorbutico di Michele e dall’altro la felicità formale e la prodigiosa capacità di tessere relazioni di Claudia. Credo che fui tanto pressante che Michele per un po’ di tempo evitò di incontrarmi. In effetti, non erano affari miei. E, poi, come si è visto, entrambi i due studi hanno prodotto lavori eccellenti. Labics con opere orientate verso un maggior senso del ritmo, della texture, del controllo dello spazio e della piacevolezza estetica. Nemesi proseguendo con lodevole cocciutaggine il proprio discorso sulla rottura e riarticolazione dello spazio, avendo sempre come punto ideale di riferimento l’architettura dei grandi maestri della West Coast americana, in primis Tom Mayne di Morphosis con il quale ha in seguito sviluppato forme di collaborazione professionale.
Avevo pensato che per ricerche così complesse come quelle portate avanti da Michele Molè, adesso associato con Susanna Tradati, ci fosse poco spazio in Italia. Per mancanza di committenti, soprattutto pubblici, disposti a rischiare e per mancanza di imprese pronte a realizzare costruzioni che andassero fuori dalla logica della griglia di pilastri in cemento tamponati con muri a cassetta rivestiti, quando va bene, in cortina di mattoni.
IL PADIGLIONE ITALIA PER EXPO 2015
Invece, l’occasione di un’opera di grande visibilità è venuta proprio in Italia con il Padiglione Italia per l’Expo del 2015, un progetto risultato vincitore, tra 68 partecipanti, nel concorso di progettazione del 2013 e realizzato con tempi minimi, almeno secondo gli standard italiani.
Il progetto di Nemesi può piacere o no. A diversi, anzi, repelle per la sua complessità formale e per l’utilizzo di pannelli prefabbricati l’uno diverso dall’altro che compongono un aggrovigliato sistema di fili che si intrecciano. Ricordo ancora quante mail di protesta ho ricevuto quando mi chiesero di indicare su un inserto settimanale di un quotidiano quale fosse l’edificio di cui si aspettava il completamento più interessante del 2015 e io lo indicai senza esitazione.
Pochi hanno però notato che, indipendentemente da ogni giudizio estetico, l’edificio rappresenta un esperimento, quasi unico in Italia, consistente nell’utilizzare tecniche di progettazione evolute nell’industria edilizia. Dove la varietà finalmente prevale sulla ripetizione grazie all’utilizzo di macchine a controllo numerico che sono in grado di realizzare un pezzo diverso dall’altro. Un po’ come è avvenuto con il passaggio dalla macchina da scrivere, che impone testi battuti con uno stesso carattere, alla stampante a getto d’inchiostro, che ci permette di scrivere come vogliamo sul foglio di carta.
Insomma: Nemesi è uno dei pochi studi operanti oggi in Italia che ha avuto il coraggio di praticare esperimenti insieme difficili e promettenti, assumendosene la responsabilità, nonostante lo scarso tempo a disposizione per completare l’opera e il non certo positivo contesto imprenditoriale e culturale per realizzarla.
A questo punto credo risulti chiaro perché abbia voluto dedicargli il trentatreesimo profilo. Perché in Italia non mancano studi di progettazione che sappiano realizzare opere corrette, belle, accattivanti. Mancano progettisti che sappiano rischiare, che abbiano il coraggio di sondare strade non battute, che mettano a rischio il buon gusto che assopisce i nostri sensi. Nemesi lo fa e per questo motivo, qualsiasi sia il giudizio di gusto che voi darete della loro produzione sempre ossessivamente eccellente, meritano ammirazione e gratitudine.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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