Migranti a lavoro in un sito archeologico siciliano. Integrazione e cultura
Un bel progetto sperimentale che unisce la questione dei migranti all’impegno per la ricerca, la tutela e la valorizzazione dei beni culturali. Lo lancia la Soprintendenza regionale di Ragusa, in collaborazione col locale SPRAR. Ma i giovani archeologi siciliani non ci stanno. Polemiche e riflessioni.
Quando i beni culturali diventano veicolo di integrazione, strumento di convivenza civile, contenitore di storie attuali e di occasioni future. Succede in Sicilia, nei dintorni di Ragusa. Dove la Soprintendenza conduce una campagna di scavi, all’ombra di folti uliveti e dentro al perimetro di una necropoli del IV secolo d.C. Siamo in Contrada San Nicola Giglia e su quel terreno, acquistato dalla cooperativa Nostra Signora di Gulfi che fa capo allo SPRAR di Ragusa (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), sono nati un’azienda agricola e un campo archeologico. Qui si lavora, sotto il sole già rovente della primavera, si lavora per portare alla luce i resti di quel sito sommerso, ennesimo frammento dell’immenso patrimonio custodito nel ventre dell’Isola.
GIOVANI RIFUGIATI ACCANTO AD ARCHEOLOGI PROFESSIONISTI
E in mezzo alla terra, agli arbusti e ai sassi si contano decine di occhi speranzosi, euforici. Tutti occhi di giovani migranti: cinquanta extracomunitari, da settimane impegnati in turni di scavo, insieme al team di professionisti guidato dagli archeologi della Soprintendenza Anna Maria Sammito e Saverio Scerra. Sono ragazzi dai 18 ai 25 anni, ospiti dello SPRAR, primo promotore dell’iniziativa. Ne è nato un progetto sperimentale, costruito sulla traccia di un’altra sfida portata a termine: la cooperativa – che conta anche su un archeologo interno, il prof. Francesco Cardinale – aveva già coaudivato Soprintendenza e Polo museale di Ragusa per l’allestimento di una piccola sezione archeologica dei musei comunali di Chiaramonte Gulfi. Tutte esperienze di successo, che testimoniano la qualità e la costanza di una collaborazione in atto tra presidi istituzionali e operatori socio-culturali del territorio.
I ragazzi coinvolti oggi, oltre alla gioia della scoperta e a un bel bagaglio di esperienza riceveranno un attestato di partecipazione e una borsa lavoro di 400 euro al mese. Completano la squadra due minori, che il Tribunale di Catania ha assegnato alla missione, come misura di recupero alternativa al carcere. A tutti, ha sottolineato il Soprintendente Calogero Rizzuto, “i nostri archeologi insegnano il valore del rispetto per il passato, ma anche un lavoro”. Nuove visioni, nuove prospettive: se inizialmente i giovani africani continuavano a chiedersi “perché dobbiamo disturbare il sonno dei morti?“, qualcuno ha presto raccontato loro che – separando convinzioni religiose e indagine scientifica – di quei corpi si poteva apprendere qualcosa di importante, ricostruendone storia, identità, età, cause di morte. Un balzo all’indietro, fino alla vita, a partire da ciò che riposa, che è invisibile, che si è fatto polvere e frammento.
E l’entusiasmo è stato immenso, dinanzi ai primi risultati: il 18 aprile scorso sono venuti alla luce 2 sarcofagi, 20 tombe e 4 sepolcri d’epoca bizantina, ancora chiusi. L’apertura solenne avverrà in presenza delle autorità e dei cittadini.
Per il neo assessore ai Beni Culturali Sebastiano Tusa, già Soprintendente del Mare, nonché stimato archeologo, quella di Ragusa è un’esperienza esemplare : “Un progetto modello per la Sicilia intera”. E davvero di un modello virtuoso si tratta, tra sviluppo del territorio, politiche per l’integrazione, misure di inclusione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico. Fare bene si può e si deve, nel nome di una cura necessaria: per le persone, per le comunità, per i luoghi, per la conoscenza.
E così la Sicilia, dalla sua aspra trincea affacciata sui disastri del Mediterraneo, con questa piccola storia indica una direzione, ma soprattutto una logica possibile in fatto di immigrazione. Oltre l’intolleranza diffusa e verso una progettualità concreta.
POLEMICHE SUI SOCIAL
Eppure le polemiche non sono mancate. Commenti stizziti, sarcastici, insofferenti, persino infuriati, al margine della notizia pubblicata sulla pagina Facebook del Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana. Il problema? Riassumibile in un paio di slogan, molto in voga ultimamente: “prima gli italiani” e “gli immigrati ci rubano il lavoro”. E stavolta, a parlare, sono anche archeologi in cerca di un impiego o in attesa di adeguamenti contrattuali, stanchi – giustamente – per una situazione che non decolla, mentre anni di studio si infrangono contro le difficoltà di inserimento professionale. “Una cosa indecente!”, scrive Cristina, “Dopo anni di formazione, noi archeologi siamo costretti a trovarci altri lavori. Spesso dobbiamo lavorare gratis perché il volontariato va così di moda che la nostra professione è ridotta a questo. E adesso fare l’archeologo è un mestiere da insegnare ai migranti? Senza laurea, competenze, formazione?!”. Le fa eco Colette: “Voglio vedere quanto buonismo si sfodererebbe se iniziassero a utilizzare migranti diciottenni per assistervi come medici in ospedale o come avvocati in tribunale”, mentre Renato la butta in politica: “che vadano in Egitto che la c’è da scavare e lascino ai disoccupati italiani lo a possibilità di diventare archeologi..certo che il PD dei centri sociali vuole di giocare con l’intelligenza degli italiani”. Durissimo Massimiliano, che tira fuori un perfetto bouquet di frasi fatte: “semplicemente qualche zecca mondialista si è infiltrata nel dipartimento e ne approfitta per fare le sue stronzate ideologiche”, e ancora, “con tutti i laureati siciliani in archeologia e storia che ci sono disoccupati fate lavorare i clandestini!”. Buonismo, mondialismo, clandestini e zecche rosse. Addirittura. L’apocalisse è vicina.
L’IMPEGNO PER I MIGRANTI E LA RISPOSTA DELL’ASSESSORE
Non si è fatta attendere la risposta dell’Assessore Tusa: “I commenti negativi, a proposito del coinvolgimento di extracomunitari nelle ricerche archeologiche in Sicilia, mi amareggiano per due motivi. Da un lato perché evidentemente si critica prima di conoscere effettivamente la realtà. Non credo, infatti, che siano stati impiegati extracomunitari dando loro mansioni e prerogative di archeologo, bensì di operaio addetto allo scavo archeologico che è cosa ben diversa. In secondo luogo perché guardare a chi ha sofferto ed è molto più svantaggiato di noi con atteggiamento ostile è qualcosa di contrario alla mia sensibilità”.
Gli fa eco il professore Scerra, a capo dell’equipe. Che ci spiega: “I richiedenti asilo fanno attività di cantiere, puramente manuali. Le condizioni economiche della Regione non sono delle più felici, i fondi per la ricerca mancano e i giovani si lamentano. Ma è anche vero che noi, di una o due generazioni precedenti, siamo stati allievi di grandi professori, abituati a selezionare in modo un po’ ‘aristocratico’, in un contesto di alta accademia. Per noi era difficile fare esperienze con le Soprintendenze, entrare nei circuiti professionali. E proprio per questo oggi proviamo a invertire la tendenza: diamo possibilità a tutti di fare esperienza diretta. Accogliamo stagisti, studenti, stabiliamo convenzioni con Università e istituti di ricerca italiani e stranieri, e così con cooperative e associazioni locali. Le porte sono aperte a chiunque voglia crescere, studiare, imparare”.
SICILIA, IMMIGRAZIONE E CULTURA
I ragazzi dello SPRAR, dunque, sono solo apprendisti operai. Preziosa manovalanza. E sono soprattutto persone con storie difficili, di fuga, di lutto, di sofferenza: il dovere dell’accoglienza e lo sforzo per condurre politiche di integrazione, anche attraverso la cultura, dovrebbero essere punti cardine di ogni moderno sistema sociale.
Che un messaggio di questo tipo arrivi anche da un governo di centrodestra fa ben sperare. E sovverte qualche cliché di troppo a proposito di immigrazione. Basti pensare al PON Legalità e Sicurezza appena siglato dalla Regione Siciliana con il Ministero degli Interni: tra le molte misure messe in campo, per oltre 200 milioni di euro stanziati, anche azioni finalizzate alla creazione di “percorsi di inclusione sociale e lavorativa per gli immigrati regolari, richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale”. Qualche esempio: servizi di alfabetizzazione, assistenza sanitaria, supporto psicologico, medico e legale, formazione per offrire competenze e orientamento circa le prospettive future del mercato del lavoro. Una cornice importante, a cui l’esperienza dello SPRAR di Ragusa sembra rispondere con perfetta convergenza di obiettivi e strategie.
“Tuttavia concordo pienamente”, aggiunge Tusa, “con il grido di allarme dei tanti giovani archeologi che non ricevono dalle istituzioni quelle gratificazioni che meritano e di cui abbiamo tanto bisogno per rilanciare e gestire al meglio la ricerca, la tutela e la valorizzazione del nostro ingente patrimonio archeologico. Non faccio promesse facilmente smontabili, ma certamente non mancherà il mio impegno per creare le condizioni affinché si possa creare lavoro qualificato e adeguata occupazione per questo grande prezioso bacino di intelligenze archeologiche oggi purtroppo maltrattato”. La consapevolezza del problema è forte in chi – rivestendo oggi un ruolo politico – arriva proprio da quel mondo, con l’autorevolezza dello studioso: eserciti di giovani professionisti della cultura attendono spazio, voce, attenzione. Con sacrosanta impazienza. E però, riversare rabbia e frustrazione su chi sta radicalmente peggio è roba che squalifica, che immiserisce; condividere e supportare processi di inclusione, apertura, scambio, integrazione, resta il vero valore aggiunto. A proposito di cultura. A proposito di Sicilia.
– Helga Marsala
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