Il film di Sorrentino, la banalità e il porno. La critica di Tommaso Pincio
Tommaso Pincio propone una serie di acute riflessioni su “Loro 1”, la pellicola di Paolo Sorrentino. Assimilandolo alla banalità estetica dei film porno, dove gli spazi vuoti dell’ambiente sono riempiti con delle opere d’arte.
La banalità supera sempre la realtà. Da tempo coltivo un sogno, un progetto. Potrebbe prendere forma tanto di libro quanto di mostra. La mostra è l’opzione che preferirei, ma va bene anche il libro, per cui i curatori e gli editori presenti in sala prestino particolare attenzione. Ho provvisoriamente chiamato questo sogno: Background: The Art in Porn. An atlas. Il titolo inglese si spiega con il fatto che quale collocazione ideale avrei pensato al MoMA o alla Tate, ma vanno benissimo pure la Gnam o il Castello di Rivoli, per carità.
Trattasi di questo, in breve. Nel corso di una delle mie compulsive ricerche di immagini condotte su Google mi è capitato di imbattermi in una scultura a parete. Sul momento, ho esclamato “‘mazza che brutto ‘sto Stella!” Poi, guardando meglio, perché le sculture a parete di Stella solitamente mi piacciono malgrado siano sempre al limite della sopportabilità, mi sono reso che non era un vero Frank Stella, ma soltanto una brutta scultura a parete che voleva ispirarsi allo stile di Stella. La cosa più interessante era però che sul divano sottostante la parete si vedano distintamente due corpi nudi impegnati in attività irriferibili. Che per fare da sfondo a un porno si fosse scelto un elemento decorativo così impegnativo mi ha dato da pensare o, meglio, mi ha spinto a verificare con quanta frequenza compaiono opere d’arte nei film porno e di che tipo sono solitamente queste opere. La ricerca (che molti troveranno bizzarra, diciamo così) si è rivelata vantaggiosa per almeno due motivi. Il primo, ovviamente quello di avere una nobile scusa per guardare questo genere di film. Il secondo, e forse più significativo, la scoperta che questa frequenza va ben oltre ciò che mi aspettavo. In pratica, ogni qualvolta il porno è ambientato in un soggiorno la presenza di un’opera d’arte di qualche tipo può essere data per certa. È una tradizione di lunga data, tramandatasi nel tempo. Si parte dalle scadenti pellicole destinate ai cinema a luci rosse, dove gli interni avevano quasi sempre l’aspetto di sale d’aspetto tra le più squallide e infami, per arrivare alle ville californiane con piscina delle più curate produzioni attuali. L’arte, per quanto di pessima qualità, è sempre lì, un angelo custode che sorveglia i lussuriosi. La loro impressionante varietà è tale da rendere necessaria una catalogazione di stampo warburghiano (Warburg è morto e non può randellarmi). Un bilderatlas dove queste opere non siano soltanto inventariate e presentate attraverso i fotogrammi dei porno da cui hanno fatto capolino, ma siano anche accompagnate da un corredo iconografico che ne ricostruisca contesti e origini. Immagini di interni assimilabili a quelli in cui sono girati quei film. Immagini dei luoghi, delle strade in cui possono trovarsi case con interni di quel tipo. Immagini delle vere opere d’arte che, più o meno consapevolmente, la brutta arte dei porno imita. Immagini di attori e attrici di quei film e via di questo passo, fino a creare la più vasta Mnemosyne possibilità dell’arte nel porno. Non mi soffermo sugli stretti e peraltro facilmente intuibili legami tra arte e ciò che chiamiamo pornografia perché l’esposizione di questo mio sogno serve qui esclusivamente a illustrare la premessa e arrivare ad altro, Loro 1 di Sorrentino.
L’ARTE E I PORNO
Prima di arrivarci, però, ancora un paio di altre considerazioni. Immagino che se non avessi alle spalle un passato di mercante d’arte, l’idea di allestire una Mnemosyne del porno mai mi avrebbe sfiorato. La maggior parte delle persone che frequento, persone che per un verso o per l’altro si interessano di letteratura o mondi attigui, hanno un occhio del tutto diverso. Entrando in una casa, quel che subito notano è se ci sono libri o no e di che tipo. In me, malgrado la letteratura sia ormai la mia principale occupazione, sopravvive il mercante che guardava alle pareti per vedere cosa c’era appeso e capire se si poteva condurre in porto una vendita. La motivazione era venale, lo riconosco, ma è comunque servita a entrare nell’animo altrui senza dovere necessariamente passare per la porta principale. Ciò che si appende alle pareti rivela infatti moltissimo di chi, tra quelle mura, ci abita. Rivela, per esempio, cos’è per l’abitatore una superficie bianca, se la intende come un vuoto e quanto questo vuoto gli risulti tollerabile; se ne ricava ansia o serenità, un’idea di solitudine o di pulita eleganza. E se la decisione di appendere qualcosa non è per nulla automatica, ancor meno scontato è propendere per un’opera d’arte. Per una vera opera d’arte, intendo, brutta o bella che sia.
In molti scelgono infatti grandi maestri e capolavori notissimi, ma, essendo questi fuori della loro portata, si accontentano di riproduzioni. Altri invece vogliono il manufatto, il quadro originale, dipinto magari da uno sconosciuto, ma firmato. E qui si verifica un fatto davvero curioso. Finora non mi è mai capitato di scorgere una riproduzione in un set porno. Sempre opere autentiche; quasi sempre mediocri ma autentiche. Perché così tanta arte nei porno? Che bisogno c’è? Perché mai chi guarda un film di quel tipo dovrebbe prestarvi attenzione? Una risposta possibile è che il regista, trovando l’inquadratura vuota, senta il bisogno di riempire la parete. Che questo bisogno non sia una mia proiezione, ma qualcosa di ben presente nel regista, lo prova il fatto che non di rado il quadro è appeso troppo basso, praticamente attaccato al divano, in un punto dove verrebbe sicuramente tolto perché ci si sbatterebbe di continuo la testa. C’è sempre un quadro perché alla domanda “Che ci mettiamo dietro?” il regista si dà la più banale delle risposte: un quadro.
LA BANALITÀ E SORRENTINO
Quando all’inizio dicevo che la banalità supera sempre la realtà alludevo proprio a questo: al fatto che nei salotti dei porno c’è più arte di quanta ce ne sia nei salotti reali. È un principio valido in assoluto e in fondo non troppo lontano dal modo in cui Hanna Arendt mostrava il male estremo come un esito della banalità. Vale per il porno come per qualunque altra cosa: la banalità amplifica ciò su cui si concentra, conferendogli una pervasività che nel reale non ha. Dove voglio arrivare con questa lunga premessa? Forse al fatto che il film di Sorrentino è un banale porno? Ovviamente no. Potrei essere tanto banale? Solo perché il film è, tra le altre poche cose, un trionfo di tette e culi? Loro 1 non è porno per il suo contenuto, per il suo esibizionismo. È porno per la banalità delle risposte alla domande che finge di porsi. È porno per banali astuzie di indugiare sulle imperfezioni di corpi femminili, anche se sempre desiderabili e mostrati per essere desiderati. È porno perché, come il regista veramente porno risponde alla parete vuota con un quadro, così Sorrentino, alla necessità di riempire una strada dell’Eur con qualcosa di artistico, ci mette un bel rinoceronte che trotterella da quelle parti senza un preciso motivo se non quello banale che è scappato da un circo. Si comincia allora con una pecora uccisa da un climatizzatore perché attratta da Mike Bongiorno e si culmina ‒ banalità delle banalità ‒ con il camion della monnezza che sbanda per non investire una pantegana e vola nei fori generando una pioggia di rifiuti che, in dissolvenza incrociata, diventano una pioggia di paste di ecstasy. E vogliamo parlare dei dialoghi? “Possiedi un nome?” “Candida”. “E sei Candida?” “Per niente”.
La banalità che Sorrentino esibisce in questo film è porno non perché vi sia alcunché di particolarmente osceno, nuovo o disturbante, ma semplicemente perché adotta lo stessa cifra estetica di Brazzers, che è poi la stessa cifra di Instagram. Nel mondo di Brazzers, sembra che se non scopi in un salone formato hangar con vista su piscina, credi di scopare ma in realtà ci stai solo provando. Stessa logica, stesse piscine, stessa qualità fotografica della vita di Vacchi su Instagram. Il titolo del film si spiega in fondo così: i porno li vediamo tutti, tutti postiamo su Instagram, ma tra noi e loro l’abisso è enorme. Per quanto gli schermi rendano impalpabile questa frattura, la nostra realtà non sarà mai retroilluminata quanto la loro. Loro ovvero “quelli che contano”, come viene spiegato a Riccardo Scamarcio qui nei panni di un giovane imprenditore voglioso di arrivare a Silvio, che per metà del film è chiamato soltanto Lui.
Metà tutta centrata sulle energie che questo Tarantini investe per trovare la via, il modo per un incontro. La si direbbe quasi una versione aggiornata dell’agrimensore K., non fosse che l’inaccessibilità di questo Castello è solo apparente e basta un po’ di gnocca per aprire crepe importanti. La seconda metà del film è invece tutta su di Lui, finalmente chiamato Silvio. Lo vediamo nel Castello, la villa in Sardegna, intento in poco convinti tentativi di recuperare il rapporto con la moglie Veronica. Se possibile, è una parte ancora più banale della prima. Interamente costruita su cose stranote, punta più al trompe l’oeil, a creare una corriva illusione di verità anziché un personaggio credibile. Per quanto l’intento sia quello, intenso, di mostrarci un uomo al tramonto, attraversato a momenti da barlumi di vuoto e tristezza, l’effetto non è nemmeno quella maschera. Tanto la prima che la seconda parte confidano in un’architettura drammaturgica concepita per quadri o, se vogliamo per Instagram stories. Scambio di battute, un paio di inquadrature artistiche e poi tunz tunz, vai con la musica, a volte si balla, altre no, ma comunque tunz tunz.
UNA STRONCATURA?
Messa in questi termini, sembra una stroncatura, mi rendo conto. In realtà, non sono sicuro di volermi spingere a tanto. È sicuramente un film non bello, stanco soprattutto, con tanta voglia di colpire ma senza l’energia e la visionarietà per riuscirci davvero. Brutto, non so. Dovrei pensarci. Una o due scene azzeccate ci sono, ma quanto al resto, molta prevedibilità. L’aspetto più interessante consiste forse nel fatto che il film ha un po’ l’aria di un autoritratto inconsapevole. Sorrentino come somma di Silvio e Tarantini. I due personaggi si sovrappongono quasi a costruire un prima e un dopo, non tanto della persona ma di una sua inclinazione: il fascino per la volgarità del potere. Come Fitzgerald adorava i ricchi, così Sorrentino adora gli arroganti, anzi chi si può permettere l’arroganza. Con una piccola ma sostanziale differenza, però. Fitzgerald sbagliava in maniera tenera e bambinesca, credeva nella superiorità dei ricchi come si crede in Babbo Natale e, una volta scoperta la verità, ne ha pagato il prezzo. Sorrentino li adora da adulto, sapendo che non c’è alcun Babbo Natale. Non crede vi sia niente di realmente affascinante nella volgarità del potenti, gli piace e basta. Magari è per questo che sono uscito dal cinema senza chiedermi più di tanto se ho visto un buon film o no, ma soltanto con un senso di tristezza indistinta ma profonda. Non credo vedrò il 2.
‒ Tommaso Pincio
Tratto dal post pubblicato da Tommaso Pincio sul suo profilo Facebook il 24 aprile 2018
www.facebook.com/tommaso.pincio/posts/10214933531082413
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