Dialogues #2 – LU.PA Lulù Nuti & Pamela Pintus
Con OLO, performance di esordio del progetto LU.PA, duo costituito da Lulù Nuti e Pamela Pintus,
prosegue Dialogues, ciclo espositivo di Spazio Y che invita coppie di artisti a realizzare lavori site specific,
in un doppio dialogo che interessa le loro singole specificità e l’interazione con lo spazio espositivo.
Comunicato stampa
OLO o della danza del tutto.
Valentino Catricalà
Uno spazio vuoto, bianco, squadrato. Squadrato nel senso di uno spazio che riflette una certa regolarità, molto simile a una forma quadrata. Visto da fuori, lo spazio si presenta come una sorta di grado zero dell’architettura; lo riconosciamo subito: è il white cube che ha determinato l’arte contemporanea dal dopoguerra a oggi. Un white cube, come ci dice anche Brian O’Doherty, è una idea platonica di assolutezza, dove lo spazio e il tempo si annullano: uno spazio che “trasforma senza essere sottoposto al cambiamento”. Una pagina bianca sulla quale poter osservare l’epifania dei fenomeni.
29 aprile 2018, ore 20:06, ora del tramonto, debutta il progetto Lu.Pa. delle artiste Lulù Nuti e Pamela Pintus. Un debutto vero e proprio, con i suoi rituali, le sue regole e leggi. Un debutto rappresentato anche dagli abiti costruiti ad hoc dalla designer di moda Ginevra Odescalchi. Un debutto, infine, nella quale le due artiste dichiarano il loro rapporto con un’azione simbolica, e allo stesso tempo fisica, di scrittura e cancellazione continua, di ruoli, di istinti, di resistenza, di sfinimenti: di rapporti tra razionalità, corporeità e animalità. Sì, animalità, o divenire animali, che dir si voglia.
Nell’arco di 24 ore, una notte e un giorno, le artiste si inseguiranno tracciando e cancellando ininterrottamente una linea continua sul muro della galleria, lo spazio Y. Come una pagina bianca, lo spazio della galleria diventa il luogo di apparizione di una stratificazione segnica; le due artiste, nel corso della performance, segnate dal tempo che passa, segnano sul muro i processi e gli stati che si instaurano nel loro rincorrersi continuo. Il corpo perde la sua forza razionale, per guadagnarne una meccanica, istintiva, pre-razionale, in una parola: animale. Un divenire animale che apre “possibilità vitali del tutto impensate, commistioni che travalicano i confini corporei, formano flussi in cui non ha più senso distinguere chi agisce e chi subisce, chi è soggetto e chi è oggetto, chi è umano e chi non lo è” .
E’ su questa linea che si struttura il lavoro delle artiste, una linea sottile che sottende tutti i rapporti umani e che si struttura fra razionalità e animalità, caos e struttura, forma e informe. Il corpo delle due artiste diviene così un sismografo e la mano che traccia o cancella, un oscillografo: lo strumento che traccia il segno, lo strumento che traccia la variabilità di stati. Un sisma, d’altronde, è proprio questo: un movimento tellurico, una vibrazione, una scossa, qualcosa che avviene al di là di noi, un qualcosa che possiamo solo osservare, fugacemente percepire. Il muro della Galleria diviene così la superficie che registra i segni del sismografo, la traccia temporale della vibrazione corporea.
L’esperienza dello spettatore è data però alla fine, egli non può vedere la performance, può prendere parte solamente al rituale dell’inaugurazione; dopodiché, le porte si chiudono. Solo un occhio ha il diritto di osservare. Non è il nostro. È l’occhio meccanico di una videocamera, l’occhio impersonale elettronico che invia il segnale a un monitor posto al di fuori della galleria. Lo spettatore spia, vede, scruta, come vedrebbe da un monitor per la sorveglianza, l’azione delle due performer. La gabbia/scatola della galleria si riflette nella gabbia/scatola dal monitor all’esterno.
Sembra ci sia un rapporto diretto e allo stesso tempo contrastante fra le due gabbie/scatole. Il passaggio temporale all’interno della galleria è reso visibile solo attraverso una mediazione determinata dall’occhio elettronico della videocamera, il quale tramuta l’informazione in un’altra dimensione temporale, in questo caso, una dimensione tecnologica. Fra l’occhio dello spettatore e lo spazio, si frappone un mediatore, una nuova pelle che tramuta lo spettatore in un voyeur, stimolando il lato fascinatorio ed erotico rappresentato dall’atto dello spiare. Un atto che, come messo in luce da molte teorie psicoanalitiche e neurologiche, stimola strati irrazionali e istintivi, ancora una volta, animali. Ad aumentare tale sensazione si aggiunge anche il fatto che la performance è visibile per la sua durata da uno spioncino, un piccolo buco, che permette di guardare all’interno della galleria.
E’ così che la danza “animale” delle due artiste, nella purezza bianca della galleria, colorata solo dal movimento degli abiti, si tramuta in una danza quasi erotica, di quell’erotismo, però, non legato alla sessualità, ma quale termine significante l’eccitazione degli strati più profondi del nostro essere. La danza delle due artiste è un atto continuo di creazione e cancellazione, di passaggi dal forme all’informe: un informe che, per dirla con Bataille, “disfa la forma facendola cadere dal suo piedistallo sublimatore, per farla scendere nel mondo”. E proprio in questo mondo che noi, come spettatori, ci posizioniamo e per una attimo possiamo percepire quella linea sottile che lega l’uomo come animale sociale all’uomo come parte di un tutto (OLO, dal titolo della performance). Uomo come mondo, come alterità radicale, come relazione.