Pittura lingua viva. Parola a Gianluca Concialdi
Viva, morta o X? Terzo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e dagli slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Gianluca Concialdi (Palermo, 1981) si muove in un territorio di confine tra pittura, scultura e installazioni. Con le sue opere indaga come gli spazi e le strutture architettoniche possano essere considerati di per sé elementi pittorici informali o minimali. Concialdi lavora principalmente su installazioni popolate da sculture, figure che enfatizzano la dimensione surreale e metafisica, celata dal dato reale. Ha partecipato a mostre personali e collettive, tra cui Curva di Gallo, Clima, Milano (2018); Kapala, Localedue, Bologna (2017); Park View, Frankfurt am Main, Berlino (2016); Caro Federico, GAM Palermo (2016); JEITO, L’Ascensore, Palermo (2015); MOODCLOTH, Ermes, Roma (2014); Till youth and genial years are flown, Zero…, Milano (2014); Ah, si va a oriente!, Fondazione per l’Arte, Roma (2014); T, Monza (2014); Menabrea Art Prize winner (2014); Fegato di Piacenza, Carico Massimo, Livorno (2014); La Matte, Frankfurt am Main, Berlino (2014); One Thousand Four Hundred and Sixty, Peep-Hole, Milano (2013); VIR-Via farini in residence, Milano (2013); Anonima Concialdi, GiuseppeFrau Gallery, Normann (2012); Penso con le mie ginocchia, studio Airò, Dugnani, Perrone, Milano (2012).
Cosa significa esprimersi attraverso la pittura? E quando ti sei avvicinato al mezzo pittorico?
Esprimersi con la pittura è per me qualcosa di totalmente naturale, dipingo senza pensare affatto di farlo o di saperlo fare. Ho cominciato come imbianchino nello studio di un mio amico nel 2004.
A che artisti, più o meno vicini, guardi?
Non ho mai guardato nessuno o tratto ispirazione.
Nei tuoi lavori forme astratte, o apparentemente tali, arrivano a ridefinirsi in figure fantasmatiche, strambe amebe o protozoi giganti. In passato le hai associate a immagini trovate, anche molto celebri. E sperimenti coi materiali e i linguaggi, giochi con elementi figurativi, introduci segni e texture complesse… Come si sviluppa il processo di definizione di un determinato soggetto?
Si sviluppa andando a lavorare ogni giorno e ripensando continuamente a quello che hai fatto la sera prima, tornando la mattina successiva allo studio. Questo mi porta a trasformare continuamente la percezione di quello che ho vicino. Metto in discussione quello che anche solo un attimo prima era certo e cerco di andare oltre. Cerco di andare avanti.
Hai un archivio di foto. Questa raccolta influenza in qualche modo la tua pratica e poetica?
Ho distrutto l’archivio. Distruggere l’archivio ha influenzato la mia vita.
Nel 2011, in occasione della mostra Exploding Fluid Inevitable nell’allora piscina Caimi di Milano, tu, seminudo, ti dimeni in un liquido che diventa fosforescente quando esposto alla luce di Wood. Quanto sono presenti il corpo e la componente performativa nel tuo lavoro?
Quella era una serata tra amici, inutile pensarci ancora [sorride, N.d.R.]. Non esiste componente performativa nel mio lavoro.
Eppure un’altra performance ha una valenza rilevante per te e ci riconduce a Palermo, tua città d’origine dove attualmente vivi. È il 2012 e alla GiuseppeFrau Gallery nel Villaggio Minerario Normann a Gonnesa esponi una grande tela di dieci metri rimasta immersa per un mese nel Rio Irvi, uno tra i fiumi contaminati dell’area mineraria del Sud-Ovest della Sardegna. L’inaugurazione non avviene però nella sede della galleria ma nella banchina del porto di Cagliari, da cui parti con la nave Toscana verso Palermo, appunto. Che significato aveva questo viaggio?
È stato molto importante poter girare in Sardegna con Eleonora e Giuseppe: penso che il significato sia quello dell’affettività e dell’amicizia.
Da Palermo a Milano e ritorno. Cosa rappresentano queste due città per te? Cosa significa viverci e lavorarci? Quali le analogie e le differenze?
Tutte le città sono importanti. Palermo è l’unico luogo al momento dove io possa permettermi uno studio. Queste due città non sono minimamente paragonabili.
Che interazione hanno le tue opere ‒ spesso di grandi dimensioni ‒ con lo spazio? Pensi le prime in funzione di quest’ultimo o è lo spazio che acquista un nuovo senso attraverso le opere?
Non ho mai avuto una propensione verso lo spazio. A dire il vero, dipingo opere di grandi dimensioni perché trovo siano migliori. Su carta sembrano degli studi preparatori per opere ancora più grandi. Mi piace il modo in cui mangiano lo spazio.
Dal 2004 in molte tue opere utilizzi la carta da spolvero, che ritorna anche nei nuovi lavori presentati alla galleria Clima di Milano, a cura di Geraldine Blais. Perché la scelta di questo supporto? Cosa rappresenta per te?
La carta da spolvero è un supporto affettivo. Dice molto sul futuro delle cose. Parla una lingua lontana ormai perduta. È la base di molti progetti. Ho cominciato a usarla perché è uno dei supporti più economici ma poi ho capito che dice molto di più.
Sempre parlando della personale da Clima, come nascono i titoli delle tue opere? Penso a Lido Crucicchia Albatros Beach, Centro Picasso Villabate, Pollo fantasma…
I titoli sono importanti. Non bisogna perdere l’occasione di nominare o titolare qualcosa. Sono parte integrante del lavoro. In questo caso ho scelto i titoli approfittando della fantasia che le persone hanno nel dare i nomi ai luoghi, alle geolocalizzazioni di Instagram per essere precisi. Ho scelto per ogni quadro un luogo immaginario, ma reale, dove poterlo portare. O da dove questo quadro viene. Un luogo reale e fantasma allo stesso momento.
E il titolo della mostra, Curva di Gallo, a cosa si riferisce?
È una citazione tratta da una conversazione avuta con uno degli ultimi artigiani della lamiera battuta a Palermo. Si riferisce alla forma dello sterno dei galli che lui realizza in laboratorio. Ricorda il gesto ricorrente in questo gruppo di opere.
E proprio tra le opere esposte è reiterato un portascopino in ceramica, che punteggia gli ambienti della galleria. Perché hai incluso questo elemento a un primo impatto così dissonante?
È la copia fedele del portascopino del mio studio. L’ho avuto in eredità dal vecchio inquilino, era uno degli unici elementi di compagnia presenti nel mio studio. Mi è sembrato doveroso portarlo a Milano in una forma simbolica.
‒ Damiano Gulli
Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
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