Anche le statue muoiono?
Museo Egizio, Musei Reali, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Centro Ricerche Archeologiche e Scavi dell’Università degli Studi di Torino sono i promotori di una mostra diffusa. Una riflessione sulla dialettica antico-contemporaneo, tra museologia e storia.
La mostra Anche le statue muoiono è un percorso espositivo inedito nella città torinese. Coinvolge il Museo Egizio, i Musei Reali, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e il Centro Scavi dell’Università degli Studi di Torino. Il progetto è il risultato del lavoro scientifico dei direttori, curatori e ricercatori delle varie istituzioni. La mostra rientra nel programma dell’Anno europeo del Patrimonio 2018, aprendo un discorso che sarà completato con un convegno internazionale con il quale si affronteranno in maniera globale e trasversale tematiche quali quelle della conservazione, del patrimonio, della vulnerabilità e della distruzione dell’arte.
Il titolo della mostra è estratto dalla suggestione del film di Chris Marker e Alain Resnais Les Statues meurent aussi (1953); il sottotitolo, invece, indica la complessità delle tematiche affrontate: Conflitto e patrimonio tra antico e contemporaneo. L’infrazione tra antico e contemporaneo, parte della svolta storiografica degli ultimi anni, è il nucleo della mostra, sviluppato in rapporto alla distruzione e all’annichilamento del patrimonio culturale, con un focus specifico sul Medio Oriente. Nel riferirsi al film che dà il titolo alla mostra e a quello di Ali Cherri esposto al Museo Egizio, emergono una serie di domande simultaneamente poetiche e problematiche, che ben condensano le finalità della mostra. Per esempio: cosa guardiamo quando guardiamo le reliquie dei musei? Salvare le rovine dal decadimento non significa forse distruggere quelle rovine? Le rovine sono al centro della narrazione e la distruzione di esse ha molteplici significati. Del resto, il pittoresco delle collezioni e dei musei si costruisce frammento su frammento.
STATUE COME RADICI DEI VIVI
Come suggerisce il film di Ali Cherri ‒ Petrified, 2016 ‒, è su questi oggetti morti che si vivifica la statuto degli Stati-Nazione. In qualche modo le statue, questi oggetti morti, sono le radici dei vivi. Le statue sono anche la forza materiale di operazioni di potere politico, religioso o culturale. L’iconoclastia distruttiva, la censura, la damnatio memoriae e l’annichilimento materiale sono fenomeni di legittimazione storica. Ma quale storia? Senza dubbio quella dei vincitori. In questo senso, la mostra si configura come un’operazione ulteriormente interessante in quanto affronta trasversalmente alcune delle urgenze della museologia contemporanea. Si tratta del rapporto tra la curatela e la decolonizzazione delle istituzioni. Interi musei e comparti espostivi sono la raccolta di trofei coloniali. Alcune voci parlano di vandalismo civile. È esattamente in tali contraddizioni culturali che si colloca la mostra. Attraversa i problemi che appartengono sia alla storia che alla geopolitica. Affronta la questione tra locale e globale, utilizzando le collezioni dei musei della città e riuscendo allo stesso tempo anche a includere questioni temporali, il rapporto tra passato e presente a partire dalla damnatio memoriae e dal “conflitto e patrimonio tra antico e contemporaneo”.
La mostra mette in scena una ricontestualizzazione degli oggetti, una negoziazione tra le collezioni e il contemporaneo, un apporto critico da parte degli artisti contemporanei invitati a partecipare.
LE SEDI
La sezione alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo vede un allestimento diluito. Si apre con un torso dell’artista olandese Mark Manders. Segue un lavoro di Simon Wachsmuth che riproduce il celebre mosaico della Battaglia di Isso e, in un atto di riscrittura della storia, propone simbolicamente il rapporto tra Occidente e Oriente. La narrazione espositiva procede con un lavoro sul National Museum of Beirut, svuotato durante la guerra in Libano, opera di Lamia Joreige. Video, frammenti, e oggetti fittizi raccontano la distruzione materiale dei manufatti a causa delle guerre. Nella sala finale sono esposte opere provenienti dal Museo Egizio che hanno subito la censura iconoclasta. Infine, nella stessa sala, la splendida opera di Kader Attia, Arab Spring, 2014: 16 vetrine di due tipologie diverse, distrutte a colpi di sassi durante una performance di lavoro dei collaboratori dell’artista. Kader Attia è esposto anche al Museo Egizio con due Untitled (Sacred e Violence): frammenti colorati disposti in modo disordinato su una superficie retroilluminata. Potrebbero essere i frammenti di un vaso o di una vetrata, in continuità con un discorso sulla distruzione e recupero della memoria.
Nel Museo Egizio, dove di solito le opere sono esperite a partire dalle vetrine, troviamo per la prima volta interventi di arte contemporanea. Le opere, in continuità con la Fondazione Sandretto, riflettono sul frammento, la rovina, la conservazione e distruzione. Il percorso si apre con l’unico lavoro italiano: alcune foto della serie Anamnesi di Mimmo Jodice, le quali ritraggono in maniera poetica la persistenza tra passato e presente a partire dalle civiltà antiche del Mediterraneo. L’appropriazione del passato e le sue problematiche sono affrontate anche nelle opere di Ali Cherri, come Fragments II, 2016, un’installazione che raccoglie manufatti archeologici acquistati dall’artista in un anno di frequentazione delle case d’asta d’Europa. Le opere esposte di Walid Raad, Morehshin Allahyari, Liz Glynn procedono nella narrazione tra antico e contemporaneo, distruzione e memoria. Ancora un altro tassello della mostra è nei Musei Reali, la cui collezione inizialmente era in comune proprio con quella egizia. Nel Salone degli Svizzeri è installata l’opera di Marianna Castillo Deball, Mshatta- Fassade, 2014, una monumentale tenda bianca sulla quale è riprodotto il motivo ornamentale delle rovine della facciata di Qas al-Mshatta, in Giordania, oggi conservate all’interno del Pergamonmuseum di Berlino.
L’INTERVISTA
L’iniziativa della mostra collaborativa tra diverse istituzioni della stessa città nasce su suggerimento di Irene Calderoni, curatrice della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Le abbiamo fatto qualche domanda.
Com’è nata l’iniziativa di creare un dialogo con il Museo Egizio e con altre istituzioni della città? Rientra in una nuova tenenza espositiva italiana? Penso alla mostra al Madre di Napoli, Materia Archeologica…
Come Fondazione collaboriamo spesso con altre istituzioni, italiane e straniere, nella coproduzione di progetti artistici ed espositivi. La collaborazione può nascere da un interesse comune verso un artista o, come nel caso della mostra Anche le statue muoiono, verso una tematica. Molti elementi di questo progetto hanno ispirato il dialogo con il Museo Egizio di Torino: il tema del patrimonio archeologico a rischio nelle aree di conflitto del Medio Oriente, la distruzione e dispersione di importanti collezioni museali, il museo stesso come bersaglio della violenza iconoclasta, e l’idea di riunire su questi temi le riflessioni di artisti contemporanei provenienti da quei Paesi. La collaborazione si è ampliata coinvolgendo altri soggetti della città attivi in questi ambiti, i Musei Reali e il Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino per il Medio Oriente e l’Asia. Si è così creato un ricco network di esperti, collezioni ed esperienze in dialogo che è davvero la cifra caratteristica di questo progetto.
L’operazione di questa mostra può rientrare in un’atto di decolonizzazione museale? Una negoziazione con le collezioni che avviene invitando direttamente gli artisti contemporanei a riflettere sulle opere del passato.
L’istituzione museale è qui un elemento di riflessione centrale, oggetto dell’analisi di molte opere in mostra. Il titolo stesso della mostra, mutuato dal documentario di Alain Resnais e Chris Marker, evoca una prospettiva critica nei confronti del museo e della sua eredità colonialista. I musei non sono solo vittime dei conflitti ma anche agenti nei processi di produzione e trasmissione della conoscenza storica. Sono soggetti incaricati della tutela del patrimonio, e allo stesso tempo sono spesso responsabili della sua dispersione e decontestualizzazione. È specificamente questo spazio ambiguo, di interpretazioni contrastanti, instabili, che ci interessava analizzare, soprattutto grazie alla reazione che si innesca tra le opere contemporanee, i reperti antichi e la storia di queste collezioni.
Cosa significa confrontarsi con il patrimonio del Medio Oriente? Quali problematiche apre?
Anche le statue muoiono non è una mostra geografica nel senso tradizionale, tuttavia molti artisti in mostra provengono dal Medio Oriente, e le loro opere testimoniano la necessità e l’urgenza di affrontare problemi che riguardano non solo il passato ma soprattutto il futuro dei propri Paesi. La distruzione sistematica del patrimonio ha effetti devastanti sul senso di appartenenza, sull’idea di tradizione, sulla possibilità di concepirsi come un insieme, ed è su queste dinamiche che si concentra l’attenzione degli artisti qui riuniti.
Ci parli dell’allestimento alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e di come si differenzia da quello del Museo Egizio e dei Musei Reali?
Si tratta di tre istituzioni e anche tre spazi espositivi tra loro molto differenti, e la scelta delle opere si è confrontata con entrambi gli aspetti. Si è cercato in ogni caso di creare delle reazioni tra contenitore e contenuto, perché le opere risuonassero al meglio. Così un’opera emblematica in mostra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo è la grande installazione di Kader Attia Arab Spring, composta da una serie di vetrine museali distrutte che richiamano i saccheggi del Museo Egizio del Cairo del 2011 e del Malawi Museum del 2014. La violenza è qui evocata per assenza, attraverso un vuoto angosciante e minaccioso, che ha trovato negli spazi ampi e minimali della Fondazione il contesto ideale di presentazione, in dialogo con altre opere contemporanee e reperti antichi che parlano di cancellazioni e scomparse, materiali e simboliche. Un altro esempio significativo è offerto dall’opera di Mariana Castillo Deball, che ha trovato una collocazione ideale nel Salone degli Svizzeri dei Musei Reali. Riproduzione in scala reale ma in tessuto di una architettura islamica oggi al Pergamonmuseum di Berlino, dono di un Califfo a un Kaiser, l’opera di Castillo Deball è una presenza fantasmatica nel Salone d’onore dei Savoia. Monumento alla fragilità del patrimonio, l’opera sottolinea la relazione tra imperialismo, violenza e conoscenza, attraverso i secoli e i luoghi.
Pensi che questo dialogo tra enti e istituzioni possa continuare? Può aprirsi a nuove collaborazioni?
Questa collaborazione è tuttora in corso, e il prossimo passo sarà l’organizzazione congiunta di un grande convegno internazionale su questi temi che si terrà alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e all’Università di Torino il 28-29 maggio prossimi. L’esperienza è stata molto produttiva e per questo non dubito che nasceranno altre occasioni di dialogo e scambio, in cui agli artisti sia offerta la possibilità di confrontarsi con patrimoni e collezioni di altissimo livello e significato storico, laddove i musei antichi siano arricchiti da nuove prospettive sul passato offerte dalle opere di arte contemporanea. Come Fondazione attiva sul presente, siamo molto interessati a promuovere nuovamente queste occasioni di incontro.
‒ Sonia D’Alto
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