Danza e partecipazione. Win Vandekeybus a Fabbrica Europa
Al festival Fabbrica Europa di Firenze, il coreografo fiammingo Win Vandekeybus ha presentato “Go figure out yourself”, una performance per un pubblico partecipativo e consapevole. Si tratta di una modalità inclusiva che mira direttamente alla percezione e ai processi decisionali dello spettatore.
La partecipazione del pubblico è ormai un ossessivo mito (non certo un’invenzione) della postcontemporaneità. Ci provano tutti: per un creatore di danza di oggi mettere all’opera una drammaturgia capace di inclusione della propria audience rilancia la questione della performance come intervento non neutrale sugli equilibri e sugli schemi logici che regolano la percezione (non solo estetica) e i processi decisionali tutti (contro dunque ogni tipo di teatro sedentario e rassicurante ben protetto tra le sue mura).
Nemmeno il coreografo fiammingo Win Vandekeybus si è sottratto ed eccolo qui, al Festival Fabbrica Europa di Firenze, con la sua compagnia Ultima Vez per la performance Go figure out yourself creata insieme ai cinque, tra loro molto dissimili ma tutti ugualmente efficaci, performer (Sadé Alleyne, Maria Kolegova, Hugh Stanoer, Kit King e Tim Bohaerts) e con la drammaturgia di Aïda Gabriëls. “Va’ e capisci te stesso”: nel titolo/aforisma si combina l’ingiunzione classica (Gnōthi seautón) con l’imperativo di oggi, proprio contrapposto al torpore mediatico e all’inconsapevolezza diffusa, senza coraggio, mai innocente.
La lunga carrellata delle possibili felicità sono elencate, in voce e nei corpi, dai performer per richiamare l’attenzione del pubblico, prima raccolto ai quattro lati dello spazio poi polverizzato, costretto a separarsi, a scegliere direzioni e percorsi, a partecipare. Tutto per azzerare lo spazio di nulla e di vuoto che separa la nascita di una potenziale relazione o contatto. L’obiettivo è forse quello di una maggior consapevolezza dei pericoli delle retoriche militaresche e dell’invenzione dei contrasti e delle guerre, cui solo una “politica della strada” può opporre un diritto di apparizione dei corpi, quando capaci di radunarsi e produrre altre esperienze nel campo del politico.
UN’AZIONE COLLETTIVA
La drammaturgia è costruita nella consueta alternanza tra speech e interventi danzati proprio in mezzo al pubblico tra mille capriole, improvvise roulade e lunghe scivolate a terra in un ritmo frenetico un po’ costrittivo (forse questo normativo) di tutta la forza che sembra “per forza” debba avere sul pubblico. La danza fiamminga di Vandekeybus in fondo è da sempre proprio così, forzuta e acrobatica, istintiva e conflittuale, spesso musona e caotica, di certo segnata dal tempo ma anche, occorre riconoscere, coerente e impeccabile nel perseguire il suo dogma della bellezza nell’impuro e nel difettoso.
E però alla fine tanta eccitazione crea una situazione che per ragioni di forza maggiore diventa collettiva, seppur estremamente effimera e cursoria ma proprio per questo vale la pena stare al gioco perché solo allora si percepisce il potenziale di cambiamento di ogni pur minima partecipazione e le libertà che possono essere ritrovate in queste nuove alleanze che un corpo può proprio ora costruire. Piuttosto che stare arroccati su ringhiere e scale o nascosti dietro a pilastri per non essere catturati e rimanere così immuni, vigilanti e giudicanti: ossia sofferenti di quella malinconia incapace di dire sì. Certo, tanta partecipazione non deve essere presa troppo sul serio. Ma mai come in questo caso non conta raffreddare o smontare il meccanismo ma più conta invece prendersi la responsabilità di costruirlo e farlo funzionare: perché più in generale occorre saper partecipare (anche in un dialogo fra corpi) per risolvere conflitti; occorre saper danzare per emanciparsi ed emancipare ruoli, norme e istituzioni. Dal di dentro e dal basso, appunto. A partire da una semplice articolazione di un braccio che nel suo movimento è capace di decidere di percorrere quel nulla di spazio e di vuoto che lo separa dall’altro. La danza non è uno spazio di redenzione tantomeno di rimozione e propaganda. È lo spazio del problematico e della complessità del vivente. È il tempo dell’esperienza e dell’abbandono affinché un altro tipo di conoscenza venga incontro.
Il finale è ben congegnato: i microfoni con cui i performer al buio invitano alle azioni più estreme (dunque oltre il verosimile possibili), restano in mano proprio agli astanti mentre loro si dileguano, non senza compiacimento però, perché sanno che hanno già passato il testimone.
‒ Stefano Tomassini
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati