Architetti d’Italia. Marcello Guido, il dissonante

Luigi Prestinenza Puglisi approfondisce le vicende di Marcello Guido, architetto volutamente lasciato al margine della storia e non compreso. Sebbene possa essere considerato l’erede di Bruno Zevi.

Sul caso Marcello Guido credo che si potrebbe scrivere un giallo. Racconterebbe di un testamento scomparso e della soppressione misteriosa di un erede.
Andiamo con ordine.
Marcello Guido è un architetto sul quale è stato scritto poco, anzi pochissimo. Con una eccezione, rilevantissima: Bruno Zevi.
Proprio il più importante critico italiano non ha esitato a indicarlo, e a più riprese, anche nella Storia e Controstoria dell’Architettura in Italia, come uno dei più rilevanti architetti della sua generazione. Dimenticando a bella posta altri che, invece, occupano le pagine delle cronache di architettura nazionali.
Marcello Guido, quindi, e non Michele De Lucchi, Cino Zucchi o Stefano Boeri, solo per citare i primi tre che mi vengono in mente.
Un architetto calabrese, dissonante, caotico, disturbato sino quasi ad apparire pasticciato e non progettisti del mainstream accademico: misurati, seri, ecologicamente corretti, milanesi.
I numerosi accademici interpreti di Zevi non avrebbero mai potuto accettare questo punto di vista. E così, a più riprese, hanno deciso di far finta che la presa di posizione non ci fosse mai stata.
Marcello Guido? Una invenzione polemica, al massimo un segno del rimbambimento senile di uno storico che ha avuto immensi meriti ma che, nell’ultima parte della sua attività, ha dato qualche segno di stanchezza intellettuale.
E però, come sempre accade quando si cerca di occultare la realtà dietro a interpretazioni di comodo, prima o poi qualcosa va storto.

Marcello Guido, Museum of Horse, 2002-06, Bisignano

Marcello Guido, Museum of Horse, 2002-06, Bisignano

IL CASO

Il caso scoppia in occasione della mostra del centenario della nascita del critico, che si svolge al Maxxi dal 25 aprile al 16 settembre 2018. La mostra si intitola Gli architetti di Zevi.
A curarla sono due personaggi che con Zevi hanno sempre avuto, culturalmente, poco a che dividere ma che oggi, non si sa per quali ragioni, se ne pongono come interpreti: Pippo Ciorra e Jean-Louis Cohen. Organizzano l’allestimento lungo due ideali direttrici: la prima è una time-line che, anno per anno, racconta le iniziative del critico romano. La seconda è una serie di pannelli, ciascuno dedicato a un grande architetto.
In questa sezione manca, ovviamente, Marcello Guido. A essere presenti sono invece progettisti, oramai storicizzati, quali Albini o Scarpa, che un critico di qualsiasi orientamento ‒ Tafuri compreso ‒ avrebbe potuto sostenere. E difatti l’attenzione è posta agli anni che vanno dal Quaranta al Settanta, quando Zevi non aveva ancora affinato quel punto di vista, suo caratteristico, che lo avrebbe reso poco accetto agli ambienti istituzionali.
Cosa fare, a questo punto, di Marcello Guido? La soluzione ‒ forse su sollecitazione della Fondazione Zevi, altrimenti imbarazzata ‒ è trovata inserendolo nella time-line. E così, sospeso nel limbo della cronaca e privato di un proprio spazio, Marcello Guido continua insieme a esistere e non esistere.
Erede legittimo della posizione zeviana? Non scherziamo, se si ammettesse l’ipotesi, si dovrebbe mandare all’aria tutta l’operazione di riscrittura critica, avvenuta dopo la morte di Zevi, che tende a smussare gli angoli di un personaggio altrimenti controverso e spigoloso. Che allo spazio ha sempre preferito il tempo, che alla forma ha anteposto i processi formativi, che ha scelto la disarmonia, la dissonanza e la tensione espressionista. Che ha rivendicato il diritto al progettare disturbato, a una scrittura architettonica di grado zero, simile allo yiddish e cioè una lingua che si compone “solo di parole straniere che conservano la fretta e la vivacità con cui sono state accolte”.
Dicevamo di un giallo con un testamento scomparso. In realtà un testamento Zevi lo ha scritto e lasciato a chi ancora lo vuole interpretare. È stato pubblicato ed è così evidente che nessuno riesce a vederlo e a leggerlo. Sono le pagine in cui parla dei funerali di Michelangelo, allestiti con gran sfarzo dall’accademia. Che, celebrandolo, normalizzano la portata di una rivoluzione altrimenti deflagrante e devastante. E, allora, meglio lasciare spazio alle interpretazioni riduttive, minimali, agiografiche.
Nel caso di Zevi l’equivoco critico è proprio quello messo in piedi da Pippo Ciorra e Jean-Louis Cohen, di uno Zevi che entra in sintonia con l’architettura sino agli Anni Settanta. Poi? Poi perde il contatto con la realtà, si radicalizza, sostiene posizioni sempre più sconclusionate. Diventa il guru di un manipolo di scombinati: architetti scomposti e critici esagitati. Sono personaggi come Marcello Guido, da inserire al massimo nella time-line della mostra perché non meritano uno spazio a loro dedicato.

Marcello Guido, Piazza Antonio Toscano, 1999-2001, Cosenza

Marcello Guido, Piazza Antonio Toscano, 1999-2001, Cosenza

LA COSCIENZA DELLO SPAZIO

Proviamo, a questo punto, a sostenere una teoria opposta. Secondo la quale è proprio nella maturità che vengono a distillarsi le idee più rilevanti che Zevi ha avuto nei periodi precedenti. E pensare, nel nostro caso, che l’autore di Storia e Controstoria non è affatto decotto o rimbambito, ma sintetizza felicemente una grande narrazione i cui brani ha individuato mettendoli insieme faticosamente nel corso di una vita. E se, proprio in questa narrazione, emerge, per Zevi, la figura di Marcello Guido, una ragione deve pur esserci. Vuol dire che tra i tanti italiani è proprio lui la chiave che ci permette di meglio interpretarne l’eredità. Che poi questa scelta ci possa risultare disturbante o non condivisibile è un altro paio di maniche. Ma se, da buoni storici, vogliamo capire Zevi e la sua posizione, è da qua che dobbiamo partire. Lo Zevi in salsa Ciorra o in salsa Cohen è una caricatura, una tragica mistificazione. Come era una caricatura il Michelangelo amato da Vasari e celebrato dall’accademia fiorentina. Buono per l’agiografia e le anime pie (?) dello storicismo nostrano.
Torniamo a Marcello Guido. Cosa ne caratterizza la opera? La scomposizione e la decostruzione della forma. Il concetto di dissonanza. Si tratta di uno dei punti fermi di Zevi meno compresi. Forse perché in Italia siamo abituati sin da piccoli a perseguire il concetto opposto, che è quello dell’armonia, di una forma chiusa e ben composta. Le piante disegnate da Guido sono, invece, sempre esplose e danno il senso di essere arbitrarie. Poi scopriamo che non lo sono perché permettono di relazionarsi con lo spazio circostante secondo inaspettati punti di vista. L’approccio non è mai mimetico. Come nella piazza Antonio Toscano a Cosenza, le schegge di vetro si fanno vedere, rifiutano di apparire graziose, contestuali, costruiscono tensione e nuove relazioni latrici di significato. Sono state notate somiglianze e analogie tra le opere di Marcello Guido e di Daniel Libeskind: condividono un approccio aggressivo, non pacificato, disturbato. Ricorrono entrambe a punte aguzze, a piani che si intersecano, a scontri di colore. Perché, come Zevi sosteneva, la coscienza dello spazio, di uno spazio chiuso e dato una volta per tutte, alimenta l’idolatria. E non bisogna dire solo no al classicismo, ma anche all’Illuminismo e cioè alle forme universali “assolute e assolutiste” e al Cubismo e cioè a ciò che astrae dalla materia, al montaggio di forme.
Marcello Guido non è ebreo ma Zevi probabilmente ha visto in lui uno dei pochi eredi italiani del per lui carissimo discorso sullo spazio e non spazio ebraico: “L’ebraismo in arte punta sull’anticlassico, sulla destrutturazione espressionista della forma; rigetta i feticci ideologici della proporzione aurea, e celebra la relatività; smentisce le leggi autoritarie del bello e opta per l’irregolarità e la sregolatezza del vero”.
Si capisce a questo punto perché il testamento sia scomparso. E l’erede sia stato soppresso. Molto meglio continuare a pensare che Zevi amasse solo architetti quali Albini o Scarpa. Trasformandolo in un critico sostenitore dell’appropriatezza e della bella forma, quale potrebbe essere un Francesco Dal Co, avremmo a questo punto mille ragioni per dimenticarci di Marcello Guido. Che invece con le sue opere, sia pure realizzate in una lontana provincia, ci ricorda a ogni passo di un lascito enorme dal quale ogni giorno tentiamo di sfuggire.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Architetti d’Italia #3 – Stefano Boeri
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Architetti d’Italia#7 – Adolfo Natalini
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Architetti d’Italia #33 ‒ Studio Nemesi
Architetti d’Italia #34 ‒ Francesco Dal Co

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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