Biennale di Architettura 2018. L’opinione di Luigi Prestinenza Puglisi
A poche ore dalla pubblicazione del punto di vista di Valerio Paolo Mosco sulla 16. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, a prendere la parola è Luigi Prestinenza Puglisi. Con un’analisi estesa anche alle edizioni più recenti.
Potremmo liquidare questa Biennale di Architettura curata dalle Grafton come una pessima mostra senza né capo né coda. Non ci convince il tema, tanto vago da apparire inesistente: Freespace. Ci spaventa la scelta di architetti selezionati tra i più disparati e non legati tra loro da un sia pur minimo filo stilistico: tanto che, per esempio, Botta sta accanto a Diller Scofidio +Renfro e la progettista del recupero del Corviale di fronte a Toyo Ito. Né i progetti hanno un approccio comune: c’è chi il freespace lo ha inteso come uno spazio pubblico, chi come spazio domestico, chi, nei padiglioni nazionali, come lo spazio del Padreterno. Questa biennale, infine, non è neanche un trampolino di lancio di nuove promesse tanto che c’è anche l’ottantunenne Rafael Moneo con un progetto che risale al tempo di quando i giovani talenti di oggi avevano i pantaloni corti.
E quindi? E quindi è bene rimpiangere la pericolosa ma coerente biennale di Paolo Portoghesi, che nel 1980 almeno una proposta per il prossimo futuro ce la aveva, oppure ipotizzare altri scenari, non ultimo trasformare la biennale in una fantasmagorica fiera, senza inibizioni di coerenze culturali, ovvero in un incontro scontro di punti di vista diversi ma raccolti secondo un minimo di ordine e, magari, tracciando qualche genealogia. Meglio tutto, insomma, che due maestrine come le Grafton che sembrano non sapere cosa facciano e hanno, per di più, la pretesa di affiancare a ogni installazione un loro commento.
LA RETORICA DELL’ANTI STAR SYSTEM
Se archiviassimo, come mi sembra fare Valerio Paolo Mosco, e non senza ragioni, in questi termini la questione, credo però che trascureremmo la domanda più importante: del perché siamo giunti a questo punto. Correndo il rischio di pensare che le Grafton siano solo un incidente di percorso e non la compiuta rappresentazione di una malattia culturale che da qualche tempo ci ammorba. Una malattia che ha contagiato, ovviamente in misura diversa, la gran parte delle istituzioni che si occupano di architettura. Si tratta della retorica dell’anti star system, della bramosia del politically correct, del desiderio di restituire all’architettura i suoi valori sociali, ma attraverso la frequentazione dei salotti buoni. Motivo per il quale da un lato ci sarebbero gli architetti seri, impegnati, consapevoli e dall’altro gli autoreferenziali, bombastici, spendaccioni servi dell’ideologia egoistica del capitalismo finanziario. Chi sono i nostri eroi, portatori di plusvalore sociale e di serietà teorica? Sicuramente gli ultimi direttori delle biennali di architettura benedetti da Paolo Baratta. David Chipperfield con il suo desiderio di sobrietà e classicità. Alejandro Aravena con la sua apertura all’edilizia sociale. Kazuyo Sejima il titolo della cui mostra era People Meet in Architecture. E, naturalmente, Richard Burdett e Rem Koolhaas.
LA SCELTA DEI PARTECIPANTI
Tutti loro sono caduti nella trappola che è, appunto, proclamarsi estranei al tessuto dello star system per poter promuovere l’architettura impegnata nel sociale. Non trattandosi, nella quasi generalità dei casi, di teorici, il loro apparato concettuale è, però, vago, ambiguo, a volte confuso. Ma, soprattutto, trattandosi di star, o aspiranti tali, è ampiamente contraddittorio. E non solo per le evidenti discrepanze tra dichiarazioni e realtà come nel caso di Aravena, i cui migliori progetti sono estetizzanti all’ennesima potenza e hanno poco a che vedere con le lodevoli operazioni di recupero urbano da lui stesso realizzate nelle realtà più povere del proprio Paese. Ma soprattutto nella scelta dei compagni di strada. Trattandosi di professionisti di successo, spesso impegnati nelle università e nelle istituzioni culturali più alla moda del mondo, assetati di premi, i nostri eroi non hanno evitato di chiamare alla biennale amici, benefattori, conoscenti, possibili alleati. Con il risultato che non si riesce mai a capire chi abbia i titoli per stare dentro o fuori la categoria dei prescelti. E così alimentando il sospetto che a decidere il valore di una presenza siano sempre di meno i giudizi critici e sempre di più quelli di appartenenza (non ideologica, che già presuppone una presa di posizione intellettuale, ma di appartenenza a un salotto, che appunto permette di mettere insieme personaggi altrimenti tra loro contraddittori).
IL “CASO” GRAFTON
Le Grafton hanno invitato, per esempio, diversi colleghi di Mendrisio e assegnato il Leone d’Oro a un critico che le ha da principio sostenute. Si tratta solo di una coincidenza? Valuti il lettore. Certo è che le scelte delle ultime biennali delineano un quadro caratterizzato da una narrazione debole e a volte inconsistente, dal prevalere della politica delle alleanze sul giudizio critico, dal contraddittorio proporsi dei curatori come star e anti star, dalla mancanza pneumatica di prospettive teoriche. A questo punto avrete subito chiaro il perché si siano rivelate nella maggior parte dei casi delle confuse kermesse delle buone intenzioni. Quando non ci sono idee è meglio mostrarsi buoni.
E allora? Allora se vogliamo più rigore dobbiamo liberarci da questo insultante politically correct, dalla melensa rincorsa al bene individuale spacciato come collettivo, dai curatori lupetti che si presentano docili come agnelli per raccontarci che l’architettura può essere più utile, più aperta alla gente, più etica. Non perché tutte queste problematiche siano disprezzabili, tutt’altro. Ma per la semplice ragione che i veri maestri di virtù non sfilerebbero mai nelle passerelle insieme alle top model per essere applauditi. Insomma, non si può chiedere a Armani, a Valentino o a uno stilista emergente di diventare custodi dell’etica sociale. E nemmeno a Cracco di posare come testimonial delle iniziative contro la fame nel mondo. Immagino che Baratta, che oltre a essere un uomo astuto è anche intelligente, tutto questo lo sappia. Dubito però si voglia sottrarre alla principale legge della società dello spettacolo che recita che, per aumentare proprio il successo di questo spettacolo, occorre dichiararsene nemici.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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