La nuova sala degli Uffizi e l’oblò del Tondo Doni. Allestimenti, polemiche e ironia
Quando un’opera d’arte, soprattutto se un tesoro dei secoli passati, diventa protagonista del dibattito popolare, è sempre cosa buona. Così come è buono e necessario discutere di musei, di allestimenti, di collezioni. Anche tra polemiche e ironia. È il caso della nuova sala degli Uffizi, dedicata a Raffaello e a un dipinto icona di Michelangelo…
Eike Schmidt, da novembre 2015 alla guida degli Uffizi, uno di quei super direttori stranieri scelti – non senza polemiche – tramite il concorsone legato alla riforma Franceschini, ha presentato il suo nuovo gioiello. Una stanza sontuosa, radiosa, che è già tra le maggiori attrazioni del celebre museo fiorentino. Si è trattato, in primo luogo, di uno spostamento. Un incrocio di sguardi, un gioco di corrispondenze, un’architettura di riflessi e rimandi storici, in un teatro visivo che vede a fianco alcuni mostri sacri del Rinascimento.
MICHELANGELO, RAFFAELLO E GLI ALTRI. NUOVE SALE TRA PITTI E UFFIZI
Da una zona di passaggio del primo piano, dove era esposta dal 2012, è arrivata la fiammante Madonna del Cardellino di Raffaello, valorizzata e resa nuovamente protagonista. E questa si aggiungono altri capolavori dell’Urbinate (dieci in tutto), tra cui i ritratti di Guidobaldo da Montefeltro ed Elisabetta Gonzaga, il San Giovannino e il ritratto di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, quest’ultimo fatto arrivare dalla galleria Palatina di Palazzo Pitti: fu il ricco mercante fiorentino, il cui nome oggi è associato all’unica opera su supporto mobile del Buonarroti, a commissionare al maestro una sacra famiglia, fra il 1503 e il 1504, in occasione delle nozze o forse per il battesimo della primogenita Maria. Ed ecco la bella ricostruzione storica: protagonista della grande parete centrale è proprio lui, il Tondo Doni dall’aurea cornice intarsiata, in cui la pittura si fa, nella serpentina metallica dei colori squillanti, quasi un oggetto scultoreo, straordinariamente vivo, vorticosamente plastico.
Nel dialogo tra i capolavori di Raffaello e Michelangelo c’è poi l’eco di un rapporto effettivamente consumatosi, dal 1504 al 1508, quando i due si trovavano contemporaneamente a Firenze. Si aggiunge “una terza personalità”, spiega Schmidt, “che grazie al confronto con Raffaello riguadagna la propria voce da solista”: proprio nel 1504 Fra’ Bartolomeo, appena arrivato nel capoluogo toscano, divenne un grande amico del Sanzio, con cui studiò e da cui fu fortemente influenzato. Suggestivo l’accostamento tra il Tondo Doni e uno splendido Alessandro Magno morente del I secolo a.C.: proprio quella testa, secondo alcuni studi – ne scrisse anche l’ex direttore Antonio Natali – servì come modello per la Madonna del Tondo.
Altri cambiamenti importanti alla Galleria Palatina, che perde i coniugi Doni ma che guadagnerà – in transito dagli Uffizi – tre gioielli di Raffaello: il Ritratto di uomo con mela, il Ritratto di Papa Giulio II e il Ritratto di Papa Leone, attualmente in restauro all’Opificio delle Pietre Dure. Completeranno il prezioso corpus la Santa Maria Maddalena del Perugino, che fu maestro di Raffaello, L’adorazione del bambino di Francesco Salviati e il Ritratto di uomo di Tiziano Vecellio.
RACCONTA SCHMIDT
“La nuova installazione”, racconta ancora il direttore, “sostituisce all’esibizione paratattica di capolavori isolati e feticizzati il principio del dialogo tra le opere, gli artisti e i loro committenti, e invita gli spettatori a scoprire e ripercorrere gli scambi artistici tra i grandi del passato”.
Ma non solo: nell’originaria collocazione, il Tondo Doni aveva intorno una serie di opere di altri artisti fiorentini, che al Buonarroti si erano ispirati. Autori e dipinti che, per Schmidt, “impallidivano” al confronto col capolavoro michelangiolesco. Un allestimento classico, quello precedente, con al centro la perla preziosa e intorno altre presenze più piccole, selezionate per via di diretta ispirazione.
La nuova disposizione punta dunque a una misura diversa, tra essenzialità e forza, sfoderando una concentrazione di massima potenza nella sfilata di tele iconiche, maestose, capaci di sorreggersi a vicenda. Una sorta di scrigno delle meraviglie, luminosissimo, costruito nel segno di rapporti importanti tra artisti e committenti, secondo lo sguardo di Antonio Godoli, curatore del patrimonio architettonico degli Uffizi, responsabile del progetto insieme all’architetto Nicola Santini.
IL TONDO DONI IN LAVATRICE
E veniamo alle note sull’allestimento. Sparite le pareti rosso cardinale che ospitavano il Tondo, la stanza trova una sua cifra minimale anche dal punto di vista dei colori e dei supporti. Il doppio Ritratto di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, ad esempio, è sospeso (o intrappolato?) tra cliniche lastre di vetro (dal sapore un po’ didattico, in verità), mentre altri dipinti sono inserite in nicchie rettangolari, che un chiaro gusto per la “confezione” ha ritagliato in mega pannelli laterali, asettici anch’essi, ancorché molto presenti.
Ripensato anche il colore. Muri reinventati radicalmente da un grigio chiaro, morbidamente steso per aumentare la luce e archiviare la patina classica delle tipiche raccolte museali storiche. Spazio freddo, neutrale, contemporaneo.
Infine, con un colpo d’occhio che ha scatenato polemiche, lo strepitoso Tondo Doni si ritrova incastonato in una nicchia circolare profonda, grigia anch’essa, imponente come un occhio piazzato in mezzo a un tempio. Impossibile non azionare l’immaginazione. L’oblò di una lavatrice, un possente subwoofer, un’opera di Anish Kapoor, un tiro al bersaglio, l’espositore di un negozio di cosmetici super chic o di una gioielleria, la finestra di una casa futuristica in un film di fantascienza Anni Settanta. Insomma, nulla che rimandi a un museo, a una collezione cinquecentesca, a certe architetture aristocratiche o religiose.
LE CONSIDERAZIONI
Ma soprattutto, nulla che sembri realmente utile all’opera. Non aveva bisogno di molto, la sacra famiglia scolpita nel colore da Michelangelo: niente al di là di una intelligente collocazione. Cornice imponente, preziosa, che è parte dello stesso dipinto a tempera e non semplice ornamento; cromatismi accesi, purissimi; una circolarità che è pieno movimento in potenza: perché provare a amplificare ciò che è già incisivo, nonché monumentale, nella straordinaria intersezione simbolica tra pittura, scultura e architettura?
Il movimento centrifugo della composizione è dichiarato, tra lo spazio del visibile e quello del concetto. E allora l’immagine, incassata nell’oblò, finisce quasi per allontanarsi, anziché vivere e pulsare sul piano quieto del muro. L’intento, forse, era quello di canalizzare lo sguardo dentro un foro prospettico, quasi a risucchiarlo, a rafforzare il ruolo di fulcro del quadro stesso, da cui l’azione prenderebbe il via, dinamizzando l’ambiente. Tentativo ozioso. Il piccolo dipinto di Michelangelo è già macchina scenica, motore immobile, congegno prodigioso fatto di linee sghembe e di volumetrie tonali. Tutto accade, a partire da lì. Il resto è orpello, sovrastruttura.
Nessuna particolare attitudine filologica, per altro, in questa scelta. Il Tondo Doni non nasceva per stare in una nicchia, non v’era alcuno schema architettonico da ricostruire o a cui ispirarsi, nell’elaborazione del display.
Direttore e curatori difendono, com’è ovvio che sia, l’operazione audace – probabilmente troppo audace per essere un allestimento permanente, in una delle sale regine di un museo tra più grandi al mondo -, ma l’accoglienza non è stata calorosa. E sui social è esplosa la solita ilarità a colpi di meme, oltre che di commenti e battute. L’immagine di una lavatrice con il Tondo michelangiolesco frullato al di là dell’oblò, vince per ironia ed efficacia. Una centrifuga per un capolavoro, alimentando in leggerezza un dibattito serio su opere, musei e allestimenti. E se in certi casi, al netto di complesse teorie su ergon e parergon, sofisticazioni tecnologiche e supporti di ultima generazione, bastasse una semplice parete?
– Helga Marsala
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