La 14esima edizione della Sharjah Biennial – intitolato Leaving the Echo Chamber e curata da Zoe Butt, Omar Kholeif e Claire Tancons – inaugurerà a marzo 2019. A produrla, come di consueto, la Sharjah Art Foundation. Ne abbiamo parlato con la sua direttrice, Sheikha Hoor Al Qassimi, facendo il punto rispetto alle passate edizioni e cercando di capire come il format della biennale possa evolvere.
Sin dai suoi esordi, la Sharjah Biennial ha saputo distinguersi quale appuntamento imperdibile in tutto il MENASA. Qual è il punto forte che ha contributo a stabilire una formula di Biennale così vincente e irrinunciabile?
La Biennale di Sharjah ha sempre privilegiato la produzione e la presentazione del lavoro degli artisti – indipendentemente dalla loro nazionalità – e allo stesso tempo ha offerto alla comunità locale l’opportunità di relazionarsi con le opere d’arte in mostra. Abbiamo sin da subito sentito la necessità di adottare uno sguardo aperto sui due fronti: il locale e l’internazionale. E questa è senz’altro l’equazione vincente del nostro successo. Tuttavia, è più corretto dire che la Biennale di Sharjah non è, storicamente, un place-making, cioè un luogo-piazza dove chiunque, e da più fronti geografici, può venire ed esporre le proprie opere. Infatti, sebbene il nostro focus sia sull’arte locale e internazionale, e la loro interazione con la comunità, la Biennale si è sempre caratterizzata per la sua libertà di sperimentazione rispetto ai differenti formati e modelli espositivi che la stessa contemporaneità può offrire.
Cosa ci può anticipare riguardo all’edizione 2019?
I tre curatori lavoreranno individualmente sviluppando la propria interpretazione del tema Leaving the Echo Chamber attraverso le opere che sceglieranno di portare in mostra negli spazi della fondazione. Senza forme di co-curatela e collaborazione a più voci, quindi, Zoe Butt, Omar Kholeif e Claire Tancons esploreranno e declineranno le suggestioni fornite dall’immagine presa a prestito dalla musica di una camera di riverberazione. Infine, come nostra ormai prassi consolidata, ci sarà un certo numero di nuove committenze e di installazioni site specific, specialmente per quegli artisti che stanno già lavorando sul luogo e che coinvolgeranno la nostra comunità.
Relativamente alla varietà dei programmi offerti da Sharjah Art Foundation (esposizioni, Sharjah Biennial, March Meeting), quali credete costituiscano il fiore all’occhiello che il sistema dell’arte globale in un certo senso vi invidia?
Sin dalla sua fondazione, Sharjah Art Foundation è una delle principali istituzioni che ha commissionato e prodotto tra le opere più importanti di artisti di tutto il mondo. Questo aspetto di “pura produzione” ci ha distinto rispetto ad altre istituzioni e musei per via di una forma di mecenatismo rivolto esclusivamente al sostegno di molti artisti con i quali abbiamo scelto di lavorare, contribuendo in primo luogo alle loro carriere, ma anche mostrando alla nostra comunità delle opere d’arte uniche nel loro genere e decisamente impensabili altrove. In alcuni casi, le opere sono state prodotte in collaborazione con altre istituzioni all’estero, ad esempio l’opera di Naeem Mohaiemen per Documenta, di Tarek Atoui per Performa, o di Wael Shawky per il Kampnagel Festival. Altre installazioni, invece, sono state presentate nelle maggiori manifestazioni internazionali, come la Biennale di Venezia e di Berlino. Inoltre, la maggior parte di queste opere ha integrato la collezione della Sharjah Art Foundation, oppure altre opere ancora sono entrate nelle collezioni di altrettanti importanti collezioni a livello internazionale, come il MoMA di New York o la Tate di Londra. In questo senso, l’eredità del nostro lavoro degli ultimi decenni entrerà nella storia dell’arte della nostra regione e anche in quella oltre confine, rappresentando una risorsa inestimabile per le generazioni future.
Ci sono istituzioni artistiche nel panorama internazionale ai quali pensate che la Sharjah Art Foundation possa oggi essere assimilata? O, per contro, istituzioni alle quali voi stessi avete guardato con attenzione nella fase di start-up e poi adattato alla realtà geografica di Sharjah e alla sua comunità?
Sharjah Art Foundation è un modello istituzionale unico che è cresciuto in modo organico e, in misura sempre più evidente, con la finalità di rispondere ai bisogni della comunità locale e degli Emirati, e si è mossa di pari passo con i cambiamenti che sia il mondo dell’arte che la tecnologia hanno fatto in questi ultimi dieci anni. Ad esempio, in quanto organizzatone non-for-profit, abbiamo ideato la Biennale quale programma articolato durante tutto l’anno e non solo limitatamente all’evento in sé, perché un format come quello della biennale ha un potenziale altissimo in termini di ricaduta e sviluppo di un territorio, in particolar modo nella nostra regione. E per far sì che SB vivesse al di là dell’evento inaugurale e penetrasse a fondo nel territorio, abbiamo costituito amministrativamente la Fondazione, ma soprattutto avevamo bisogno che un contenitore flessibile, ossia un’architettura ad hoc, potesse ospitare i nostri programmi e gli eventi dedicati.
Come si è tradotta quest’attività negli ultimi tempi?
Questa formula ci accompagna sin dagli inizi e continua tutt’oggi, come testimonia solo l’anno scorso l’apertura degli Hamriya Studios annessi alla fondazione, oppure la nuova installazione permanente Rain Room, attesa dal 2012 ma inaugurata soltanto lo scorso aprile. Abbiamo inoltre ampliato la nostra offerta formativa e una serie di nuovi public program, poiché la domanda di attività educative è in costante crescita da parte della comunità scolastica come anche da parte degli adulti e giovani professionisti di Sharjah. Recentemente abbiamo incluso inoltre un film screening, musica e performance. Quindi al centro della nostra attività c’è anzitutto la volontà di sperimentare continuamente con quello che facciamo, ma con particolare attenzione al “come” lo facciamo, ossia trovare il modo migliore per supportare il paesaggio culturale degli Emirati e il loro riflesso nel mondo.
‒ Claudio Cravero
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #43
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